mai preso un dieci in vita mia... perseguitato dalla sfiga, sono sempre stato interrogato su quello che non avevo preparato...però ho fatto tante ricerche, alcune persino curiose, che oggi ho deciso di pubblicare

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martedì 20 dicembre 2011
IL VIAGGIO NELL'ALDILA'
Il tema del viaggio nel REGNO DEI MORTI, non è un’invenzione dantesca: Dante si è ispirato ad opere che certamente conosceva bene ed amava: dal profeta Elia della Bibbia, a San Paolo del Vangelo, passando per Maometto nella letteratura araba, fino alle opere di Virgilio e Omero.
Nell’Odissea di Omero, le anime che Ulisse incontra scendendo agli inferi sono prive di vera e propria forza interna, sono prive di ricordi, sono ombre presentate sottoforma di sogni. Esse infatti hanno bisogno di sangue per ricordare le loro vite passate, e le rimpiangono amaramente.
E’ interessante constatare che certamente Dante conosceva un’opera della letteratura araba, che è “Il libro della scala”, che ai tempi di Dante era già disponibile nelle biblioteche, in cui si racconta del viaggio di Maometto nell’aldilà.
Si racconta che una notte Maometto viene svegliato da un angelo e portato al Tempio di Gerusalemme, dove, tramite una scala di pietre preziose, sale nell’Aldilà. Durante l’ascesa incontra gli angeli guardiani dai quali riceve profezie e rivelazioni. Poi attraversa i sette cieli e vede i Profeti che l’hanno preceduto: Adamo, Abramo, Aronne, Enoch, Elia, Mosè, Giuseppe, Giovanni e Gesù.
Quindi entra nei giardini delle delizie e incontra splendide fanciulle promesse a coloro che in vita hanno rispettato la Legge divina. Poi incontra la comunità dei beati e riceve rivelazioni sul Giudizio finale.
Nel Terzo cielo incontra un angelo gigantesco e terrificante, divino vendicatore delle offese umane e guardiano dell’abisso infernale. L’angelo mostra al Profeta i sette piani dell’Inferno elencando minuziosamente le categorie dei dannati e i diversi supplizi a cui sono destinati. L’inferno viene descritto con la stessa forma ad imbuto, così come la legge di contrappasso che determina la punizione dei peccatori in base ai loro delitti, sembrano molto ai modelli danteschi.
Ma è nell’Eneide di Virgilio che troviamo le più forti similitudini con l’opera dantesca.
Per raggiungere il regno del dio Ade, si passa da un fitto bosco scuro. Enea viene accompagnato dalla Sibilla, che lo difende dalle insidie e dai vari personaggi che incontrano.
Per raggiungere l’Ade, le anime devono attraversare il fiume Stige (anzichè l’Acheronte dantesco), traghettate da Caronte.
La figura di Caronte è estremamente simile nelle due opere, anche se per Virgilio è un dio mentre per Dante è un demonio.
Si arrabbia ed urla contro i visitatori vivi, rifiutandosi di prenderli a bordo; ha la barba bianca e gli occhi rossi e fiammeggianti, anche se la descrizione fisica di Dante è più particolare.
Nell’opera di Virgilio, le anime sono impazienti di venir traghettate sull’altra sponda dello Stige per raggiungere l’Aldilà, ma Caronte le fa stare indietro minacciandole. Sono tutte le anime dei morti in generale, che devono attraversare comunque lo Stige, sia i buoni, sia i cattivi.
Al contrario il Caron Dimonio dantesco, traghetta solo le anime dei dannati, picchiando quelli che non si sbrigano (Dante spiega che sono lenti perchè sono affaticati dalla morte che li ha appena colti) : infatti nella Divina Commedia, le anime destinate al Purgatorio o al Paradiso, giungevano in diverso modo nell'oltretomba (con “più lieve legno”, come predice Caronte stesso a Dante).
In viaggio di Enea prosegue poi attraverso l regno di Ade, dove incontra le anime di personaggi celebri, amici, poeti, ecc ecc
Incontra persino la sua amante Didone, suicidatasi quando Enea la abbandonò per proseguire il suo viaggio. Giunto alla diramazione tra la via per il Tartaro e quella per i Campi Elisi, incontra lo spettro del poeta Orfeo che porta Enea dal padre Anchise: Enea è turbato dal non poterlo riabbracciare per la sua incorporeità, ma il padre lo conforta. Enea e la Sibilla risalgono quindi nel mondo dei vivi.
IL VIAGGIO
“A chi mi domanda la ragione dei miei viaggi rispondo che so bene quello che fuggo ma non quello che cerco."
Michel de Montaigne
La parola viaggio deriva dal provenzale viatge, che a sua volta proviene dal latino viaticum, un derivato di via. Viaticum in latino era la provvista necessaria per mettersi in viaggio, e passò più tardi a significare il viaggio stesso.
Nel suo significato più generale il viaggio è l’azione di muoversi per andare da un luogo a un altro. L’uso più frequente di viaggio è quello che indica il giro in paesi diversi dal proprio, che dura un periodo variabile ma comunque limitato.
Si viaggia per i motivi più diversi: esistono viaggi di studio e viaggi di esplorazione; una domanda tipica quando due conoscenti si incontrano durante un viaggio è affari o piacere? Nel Medioevo il viaggio per eccellenza era quello in Terra Santa, cioè il pellegrinaggio ai luoghi sacri del Cristianesimo.
La mobilità è molto cresciuta nel corso dei secoli, e le distanze si sono accorciate enormemente col migliorare dei collegamenti; ma nel linguaggio familiare viaggio conserva a volte il senso di impegno, lunghezza, fatica che era proprio dei viaggi di una volta.
Il percorso del viaggio può essere soltanto ideale, fantastico: chi ha la passione dei viaggi ma non ha i soldi per permettersela può consolarsi con i film e i documentari che ci consentono viaggi nel tempo, nello spazio, nella fantasia, oppure ci fanno ripercorrere viaggi fatti e descritti da altri.
La letteratura di viaggio fu un genere molto fortunato in Europa fino alla metà del Settecento. In periodi più vicini a noi, uno scrittore come Emilio Salgari, famoso per l’ambientazione esotica dei suoi romanzi, inventò i viaggi dei suoi eroi in luoghi che non aveva mai visto: la Malesia di Sandokan eYanez è ricostruita tutta a tavolino.
Nel linguaggio dell’industria e del commercio, un viaggio corrisponde a un trasporto di merci. Da questo senso nasce l’espressione fare un viaggio a vuoto, che si usa comunemente per dire un viaggio inutile, ma sarebbe propriamente un viaggio per cui si è pagati all’andata ma non al ritorno.
Il gergo della droga usa la parola viaggio nel senso dell’inglese trip, che indica lo sconvolgimento dei sensi che si ottiene drogandosi e poi, più estesamente, l’evasione dalla realtà, ottenuta anche con mezzi meno pericolosi.
L’immagine della vita come viaggio è profondamente radicata in molte culture di tutto il mondo, ed è logico che la lingua ne rifletta l’importanza e la diffusione.
Grazie a questa immagine, usiamo normalmente espressioni come l’aldilà nel senso dell’altro mondo, venire al mondo per nascere e andare all’altro mondo per morire, o diciamo che siamo finiti fuori strada quando abbiamo sbagliato, che siamo a un bivio se siamo costretti a una scelta, che abbiamo preso una sbandata se ci siamo innamorati, che siamo in un vicolo cieco se ci troviamo in crisi e non abbiamo soluzioni.
Da viaggio deriva il verbo viaggiare, che inizia a essere usato non prima del Seicento. Su viaggiare si è poi formata la parola viaggiatore, che anticamente si usava per gli esploratori, i mercanti e gli scienziati che partecipavano a viaggi di scoperta, mentre oggi indica soprattutto chi viaggia sui mezzi pubblici, oppure chi viaggia per mestiere: anche se i commessi viaggiatori sono pagati meglio dei piccioni viaggiatori.
tratto dal blog dei ragazzi di Castellammare
Michel de Montaigne
La parola viaggio deriva dal provenzale viatge, che a sua volta proviene dal latino viaticum, un derivato di via. Viaticum in latino era la provvista necessaria per mettersi in viaggio, e passò più tardi a significare il viaggio stesso.
Nel suo significato più generale il viaggio è l’azione di muoversi per andare da un luogo a un altro. L’uso più frequente di viaggio è quello che indica il giro in paesi diversi dal proprio, che dura un periodo variabile ma comunque limitato.
Si viaggia per i motivi più diversi: esistono viaggi di studio e viaggi di esplorazione; una domanda tipica quando due conoscenti si incontrano durante un viaggio è affari o piacere? Nel Medioevo il viaggio per eccellenza era quello in Terra Santa, cioè il pellegrinaggio ai luoghi sacri del Cristianesimo.
La mobilità è molto cresciuta nel corso dei secoli, e le distanze si sono accorciate enormemente col migliorare dei collegamenti; ma nel linguaggio familiare viaggio conserva a volte il senso di impegno, lunghezza, fatica che era proprio dei viaggi di una volta.
Il percorso del viaggio può essere soltanto ideale, fantastico: chi ha la passione dei viaggi ma non ha i soldi per permettersela può consolarsi con i film e i documentari che ci consentono viaggi nel tempo, nello spazio, nella fantasia, oppure ci fanno ripercorrere viaggi fatti e descritti da altri.
La letteratura di viaggio fu un genere molto fortunato in Europa fino alla metà del Settecento. In periodi più vicini a noi, uno scrittore come Emilio Salgari, famoso per l’ambientazione esotica dei suoi romanzi, inventò i viaggi dei suoi eroi in luoghi che non aveva mai visto: la Malesia di Sandokan eYanez è ricostruita tutta a tavolino.
Nel linguaggio dell’industria e del commercio, un viaggio corrisponde a un trasporto di merci. Da questo senso nasce l’espressione fare un viaggio a vuoto, che si usa comunemente per dire un viaggio inutile, ma sarebbe propriamente un viaggio per cui si è pagati all’andata ma non al ritorno.
Il gergo della droga usa la parola viaggio nel senso dell’inglese trip, che indica lo sconvolgimento dei sensi che si ottiene drogandosi e poi, più estesamente, l’evasione dalla realtà, ottenuta anche con mezzi meno pericolosi.
L’immagine della vita come viaggio è profondamente radicata in molte culture di tutto il mondo, ed è logico che la lingua ne rifletta l’importanza e la diffusione.
Grazie a questa immagine, usiamo normalmente espressioni come l’aldilà nel senso dell’altro mondo, venire al mondo per nascere e andare all’altro mondo per morire, o diciamo che siamo finiti fuori strada quando abbiamo sbagliato, che siamo a un bivio se siamo costretti a una scelta, che abbiamo preso una sbandata se ci siamo innamorati, che siamo in un vicolo cieco se ci troviamo in crisi e non abbiamo soluzioni.
Da viaggio deriva il verbo viaggiare, che inizia a essere usato non prima del Seicento. Su viaggiare si è poi formata la parola viaggiatore, che anticamente si usava per gli esploratori, i mercanti e gli scienziati che partecipavano a viaggi di scoperta, mentre oggi indica soprattutto chi viaggia sui mezzi pubblici, oppure chi viaggia per mestiere: anche se i commessi viaggiatori sono pagati meglio dei piccioni viaggiatori.
tratto dal blog dei ragazzi di Castellammare
JOHANNES KEPLERO...curiosità
Il famoso scienziato Johannes Kepler, che noi conosciamo con il nome di Keplero, nacque settimino da Caterina, un’erborista piccola e tremenda, come ebbe occasione di scrivere suo figlio.
Oltre che erborista era anche un po’ fattucchiera, astrologa e … strega.
Dalla disposizione dei pianeti alla sua nascita , dalla sua prematurità e forse da altri segni che non volle mai rivelare, Caterina predisse al figlio un grande destino.
Il padre era solo un povero soldato e lei faceva fatica a mantenere tutti i figli avuti. Ma Caterina credeva alla sua previsione. A sei anni portò il piccolo Johannes a vedere la sua prima eclissi di luna e gli trasmise le sue conoscenze esoteriche.
Infuse in lui la curiosità per la scienza. Infatti egli studiò scienze umanistiche , ma anche matematica con Mills, seguace di Copernico.
Chiamato da Tycho Brahe nel 1600, a causa della sua miopia fu messo a fare calcoli per l’orbita di Marte.
Fu studiandola che Keplero ebbe l’intuizione delle sue tre leggi sulle orbite planetarie, che aprirono la strada alla grande scoperta di Newton sulla gravitazione universale.
Keplero aveva ereditato un bel caratterino dalla madre, e difese a spada tratta il sistema Copernicano anche contro Brahe.

Il suo elegante trattato “Astronomia Nova” fu la migliore spiegazione geometrica del sistema copernicano. Ma non scrisse solo di scienza. Redigeva anche almanacchi astrologici, con consigli metereologici azzeccati dovuti a conoscenze trasmesse, di sicuro, da sua madre.
Esiste un suo scritto, il Somnium, in cui Keplero racconta che, con l’aiuto di una donna, aveva evocato un demone lunare che gli aveva spiegato il sistema copernicano. Di sicuro è una orgogliosa dimostrazione di amore filiale, il riconoscimento di una sapienza condannata in quegli anni oscuri.
Quando Caterina venne accusata di stregoneria ed incarcerata, Keplero era diventato matematico imperiale. Andò lui in persona al tribunale dell’inquisizione e fu così convincente che Caterina fu assolta.
Ma visse ancora un solo anno, per le privazioni che aveva subito in carcere.
Keplero spese tutti i suoi averi per farla vivere negli agi quell’ultimo periodo della sua esistenza e Caterina chiuse gli occhi felice.
Johannes aveva raggiunto la conoscenza cui lei lo aveva iniziato, ed era il più grande di tutti.
Con lui nasceva la moderna cosmologia, e le vecchie conoscenze “magiche”, che credevano nell’armonia del cosmo e nella suprema bellezza del creato, venivano riscattate.
Dicono che dietro un grande uomo c’è una grande donna, e per Keplero fu sua madre.
Una donna coraggiosa, in tempi oscuri.
Una scienziata, quando questo voleva dire morire sul rogo, che riuscì in una grande impresa: accendere lo spirito immortale della conoscenza libera in suo figlio.
Oltre che erborista era anche un po’ fattucchiera, astrologa e … strega.
Dalla disposizione dei pianeti alla sua nascita , dalla sua prematurità e forse da altri segni che non volle mai rivelare, Caterina predisse al figlio un grande destino.
Il padre era solo un povero soldato e lei faceva fatica a mantenere tutti i figli avuti. Ma Caterina credeva alla sua previsione. A sei anni portò il piccolo Johannes a vedere la sua prima eclissi di luna e gli trasmise le sue conoscenze esoteriche.
Infuse in lui la curiosità per la scienza. Infatti egli studiò scienze umanistiche , ma anche matematica con Mills, seguace di Copernico.
Chiamato da Tycho Brahe nel 1600, a causa della sua miopia fu messo a fare calcoli per l’orbita di Marte.
Fu studiandola che Keplero ebbe l’intuizione delle sue tre leggi sulle orbite planetarie, che aprirono la strada alla grande scoperta di Newton sulla gravitazione universale.
Keplero aveva ereditato un bel caratterino dalla madre, e difese a spada tratta il sistema Copernicano anche contro Brahe.
Il suo elegante trattato “Astronomia Nova” fu la migliore spiegazione geometrica del sistema copernicano. Ma non scrisse solo di scienza. Redigeva anche almanacchi astrologici, con consigli metereologici azzeccati dovuti a conoscenze trasmesse, di sicuro, da sua madre.
Esiste un suo scritto, il Somnium, in cui Keplero racconta che, con l’aiuto di una donna, aveva evocato un demone lunare che gli aveva spiegato il sistema copernicano. Di sicuro è una orgogliosa dimostrazione di amore filiale, il riconoscimento di una sapienza condannata in quegli anni oscuri.
Quando Caterina venne accusata di stregoneria ed incarcerata, Keplero era diventato matematico imperiale. Andò lui in persona al tribunale dell’inquisizione e fu così convincente che Caterina fu assolta.
Ma visse ancora un solo anno, per le privazioni che aveva subito in carcere.
Keplero spese tutti i suoi averi per farla vivere negli agi quell’ultimo periodo della sua esistenza e Caterina chiuse gli occhi felice.
Johannes aveva raggiunto la conoscenza cui lei lo aveva iniziato, ed era il più grande di tutti.
Con lui nasceva la moderna cosmologia, e le vecchie conoscenze “magiche”, che credevano nell’armonia del cosmo e nella suprema bellezza del creato, venivano riscattate.
Dicono che dietro un grande uomo c’è una grande donna, e per Keplero fu sua madre.
Una donna coraggiosa, in tempi oscuri.
Una scienziata, quando questo voleva dire morire sul rogo, che riuscì in una grande impresa: accendere lo spirito immortale della conoscenza libera in suo figlio.
DISCORSO SUL METODO DI RENE DESCARTES
Leggendo il “Discorso sul metodo” di Renè Descartes, che noi conosciamo con il nome italianizzato di Cartesio, ci rendiamo conto che non serve cercare altre informazioni sulla sua vita, sul suo pensiero, sulla sua evoluzione interiore.
In quest’opera Cartesio si presenta, parla al lettore delle sue esperienze dirette, offre una propria biografia, essenziale per capire come sia giunto, poi, alle proprie conclusioni.
La lettura del “Discorso sul metodo” è piacevole proprio perché Cartesio dialoga con il lettore come se stesse parlando ad un amico.
Egli scrive:
. ..la lettura dei buoni libri è come una conversazione con gli uomini più illustri del passato …
Ecco, chi legge il suo Discorso sul metodo, ha l’impressione di ascoltarlo raccontare le proprie avventure.
Da notare che Cartesio scrisse l’opera in francese e non in latino, perché, consapevole della portata rivoluzionaria del testo, volle dare al suo pensiero una maggiore possibilità di diffusione.
Nell’introduzione egli avvisa il lettore che l’opera è suddivisa in sei parti ben distinte:
nella prima, introduce l’argomento, parlando della propria esperienza personale.
nella seconda, enuncia le 4 regole del metodo
nella terza, enuncia le 4 regole provvisorie della morale
nella quarta, applicando il metodo prova l'esistenza di Dio e dell'anima
nella quinta, parla di questioni di fisica, parlando della creazione dell’universo; parla poi di anatomia umana ed animale.
nella sesta ed ultima parte descrive il suo progetto di diffusione del suo metodo per il futuro della scienza.

PARTE PRIMA : CONSIDERAZIONI SULLE SCIENZE
Cartesio parte da una riflessione sul buon senso e su come gli uomini lo usino in maniera differente, pur possedendolo tutti allo stesso modo.
Prende se stesso come esempio, affermando di non sentirsi particolarmente geniale rispetto ad altri, semplicemente di aver avuto maggiori opportunità per arricchire il proprio ingegno.
Nacque in Francia a La Haye (che oggi si chiama La Haye Descartes) nel 1596. Proveniva da una famiglia istruita e benestante e potè studiare in una delle scuole migliori d’Europa, presso i gesuiti. Ma ecco cosa dice di quel periodo:
Sono stato nutrito fin dall'infanzia di studi letterari, e poiché mi si faceva credere che per mezzo di essi si potesse acquistare una conoscenza chiara e salda di tutto ciò che è utile alla vita, ero oltremodo desideroso di apprendere. Ma appena compiuto l'intero corso di studi al termine del quale si suole essere accolti nel rango dei dotti, cambiai del tutto opinione.
Pur riconoscendo il valore degli studi compiuti, egli avvertiva la necessità di una scienza unificata, globale, che abbracciasse ed intrecciasse tra loro le tre fondamentali discipline, filosofia, logica e matematica, escludendo i loro propri difetti ed esaltando le loro virtù principali. Vuole trovare non solo un metodo teoretico che serva a distinguere il vero dal falso, ma anche un metodo pratico che dia concreti vantaggi.
Mi piacevano soprattutto le matematiche, per la certezza e l'evidenza delle loro ragioni; ma non ne avevo ancora riconosciuto il vero uso e, pensando che servissero solo alle arti meccaniche, mi stupivo del fatto che, pur essendo le loro fondamenta così sicure e solide, su di esse non si fosse costruito nulla di più alto
(…)
Per questo, non appena l'età mi liberò dalla tutela dei precettori, abbandonai del tutto lo studio delle lettere. E avendo deciso di non cercare altra scienza se non quella che potevo trovare in me stesso oppure nel gran libro del mondo, impiegai il resto della giovinezza a viaggiare, a visitare corti ed eserciti, a frequentare uomini di indole e condizioni diverse, a raccogliere varie esperienze, a mettere alla prova me stesso nei casi che il destino mi offriva (…)
Perché mi sembrava che avrei scoperto molta più verità nei ragionamenti che uno fa sugli affari che lo interessano, (…) che in quelli dell'uomo di lettere, chiuso nel suo studio
Cartesio si laureò in diritto e poi si arruolò in Olanda nell’esercito protestante, deciso ad intraprendere la carriera militare.
Sappiamo che fondamentale per la presa di coscienza della propria volontà ed il relativo cambiamento di direzione, fu l’incontro con il tedesco Isaac Beeckman, medico orientato agli studi filosofici e matematici.
PARTE SECONDA: LE PRINCIPALI REGOLE DEL METODO
Viaggiando come militare, restò bloccato dal cattivo tempo invernale in una cittadina della Germania, costretto per giorni e giorni in una stanzetta riscaldata dalla stufa. Fra i muri di quella stanza, in solitudine, ebbe tempo per riflettere, pensare, raffinare il suo pensiero. E soprattutto fissare le regole per il metodo per raggiungere quella perfetta fusione di logica, filosofia e matematica. Ecco le regole:
1 -L'evidenza:
Non prendere mai niente per vero; basta che ci sia il minimo dubbio per considerare falso il concetto; evitare pregiudizi accettando idee già formulate. L'idea sarà invece senz'altro vera quando è chiara e distinta.
2 - L'analisi:
Dividere il problema in parti semplici, ciò che si sta esaminando non deve essere studiato nella sua totalità perché altrimenti ci si perde nella sua complessità ma va analizzato nelle sue singole parti
3 - La sintesi:
Diviso per quanto è necessario il problema con l'analisi, bisognerà fare poi il percorso inverso, rimettere assieme le parti del problema da quelle più semplici a quelle più complicate.
4 - L'enumerazione (controllo dell'analisi) e la revisione (controllo della sintesi): Non basta con la sintesi aver ricomposto il problema iniziale ora risolto, ma bisogna controllare che durante l'analisi non si sia trascurato alcun elemento e infine la revisione, il controllo della sintesi: solo questa assicura che il risultato ottenuto sia valido
PARTE TERZA: QUALCHE REGOLA DELLA MORALE TRATTA DAL METODO
In questa parte Cartesio pone anche delle condizioni di tipo etico e morale per meglio procedere nella ricerca scientifica.
La prima regola che stabilisce di rispettare le leggi civili e religiose, sembrerebbe dettata dal timore di essere condannato come Galileo.
Egli è senz’altro consapevole che il “dubitare di ogni cosa” poteva facilmente essere interpretato come una forma di ateismo.
La seconda regola è quella di mantenersi risoluto nel portare avanti un progetto iniziato, senza cambiare direzione ma insistendo per raggiungere l’obiettivo prestabilito.
La terza regola è quella di non desiderare l’impossibile, accettando i propri limiti umani.
L’ultima regola infine esorta a continuare a praticare la professione che egli considera la migliore che un uomo possa intraprendere: coltivare la ragione e cercare la sapienza.
Questa terza parte del Discorso sul Metodo, viene chiamata Morale Provvisioria, perchè Cartesio era intenzionato a ritornarci per ottimizzarla, ma non lo fece mai.
PARTE QUARTA: LE PROVE DELL’ESISTENZA DI DIO E DELL’ANIMA UMANA, OSSIA I FONDAMENTI DELLA METAFISICA.

Nella quarta parte del discorso, il pensiero diventa complesso. Qui Descartes applica le regole del metodo per provare l’esistenza di Dio e dell’anima.
Diversamente dalla sua educazione religiosa, egli parte dal presupposto che tutto sia falso.
Dal DUBBIO, dal pensare che tutto sia falso, nasce una prima fondamentale certezza: se io penso che sia falso, comunque IO PENSO e dunque esisto, sono qualcosa.
… dal fatto stesso che pensavo di dubitare della verità delle altre cose, seguiva con assoluta evidenza e certezza che esistevo…
Il celebre motto COGITO, ERGO SUM= PENSO, DUNQUE SONO, nasce qui, in questo contesto. In francese JE PENSE, DONC JE SUIS, che diventa il primo principio della filosofia che stava cercando.
Questo concetto si amplia. L’essere esiste solo fintanto che pensa. Un corpo materiale che non pensa più, non esiste. Dunque l’IO è la mente, completamente distinta dal corpo.
Cartesio afferma che come regola generale la mente concepisce chiaramente e distintamente le cose vere. E che c’è solo qualche difficoltà a stabilire quali vediamo distintamente. Il fatto che la mente di Cartesio dubitasse delle cose, significava che lui era un essere imperfetto, perché anelava ad una perfezione maggiore.
Ma da dove gli proveniva questo istinto a cercare un pensiero superiore? Ne dedusse che doveva provenire da un essere di una natura perfetta.
Per Cartesio bisogna distinguere nel pensiero vari tipi di idee: quelle presenti nell’uomo fin dalla nascita, innate, che rappresentano verità cui l’uomo non può sottrarsi; le idee che provengono dal mondo esterno al pensiero ed alla percezione sensoriale; le idee che provengono dalla fantasia, dall’invenzione del soggetto pensante.
E’ impossibile che l’idea dell’esistenza di un essere superiore, perfetto, provenga dal nulla. Doveva provenire da Dio. A questo punto si domanda di che natura è Dio, dal momento che aveva già stabilito che la natura dell’intelligenza fosse distinta da quella corporea.
Cartesio pone l’esempio dell’oggetto della geometria, concepito come un corpo continuo, uno spazio indefinito, che i geometri suppongono di poter trasferire a piacere. Ma il fatto che le regole di un triangolo fossero dimostrabili, questo non significava che esistesse effettivamente al mondo un triangolo.
Allo stesso modo Dio, in quanto essere perfetto, esiste, perché è certo quanto una dimostrazione geometrica
La maggior parte delle persone fa fatica a cogliere il concetto della propria anima; persino certi filosofi pensano che ciò che non si può immaginare, non è intelligibile.
E mi sembra che quelli che vogliono far uso della loro immaginazione per comprenderle, fanno proprio come se volessero servirsi degli occhi per udire i suoni o sentire gli odori
(….)
Infine, se ci sono ancora degli uomini non abbastanza persuasi dell'esistenza di Dio e della loro anima per le ragioni che ho portato, voglio proprio che sappiano che tutte le altre cose di cui pensano di essere forse più sicuri, come di avere un corpo, e dell'esistenza degli astri, della terra e simili, sono meno certe. Perché sebbene si abbia di queste una certezza morale, tale che non si possa dubitarne a meno di non essere stravaganti, tuttavia, a meno di non essere irragionevoli, quando è in questione una certezza metafisica, non si può neanche negare che sia un motivo sufficiente per non ritenersi interamente certi quello di accorgersi che si può, allo stesso modo, immaginare nel sonno di avere un altro corpo, o di vedere altri astri o un altra terra senza che ci sia nulla di tutto questo
(….)
E si badi che dico: della nostra ragione, e non della nostra immaginazione, o dei nostri sensi. Così il sole, sebbene lo vediamo molto chiaramente, non dobbiamo perciò giudicarlo piccolo come lo vediamo; e possiamo ben immaginare distintamente una testa di leone innestata sul corpo di una capra, senza dover concludere perciò che ci sia al mondo una chimera: perché la ragione non ci dice affatto che quel che così vediamo o immaginiamo è anche vero. Ci dice bensì che tutte le nostre idee o nozioni debbono avere qualche fondamento di verità; giacché in caso contrario non sarebbe possibile che Dio, che è assolutamente perfetto e veritiero, le avesse messe in noi
Cartesio fornisce le prove dell’esistenza di Dio applicando le regole del metodo.
Prima prova: l’idea perfetta di Dio,che si forma nel pensiero imperfetto dell’uomo, non può essere causata dall’uomo ma può solo provenire da un essere perfetto, cioè da Dio.
Seconda prova: se l’uomo si fosse creato da solo, si sarebbe fatto perfetto,
secondo un modello di perfezione, ma se egli non è come quel modello, significa che non si è creato da solo, ma che Dio l’ha creato, finito e imperfetto pur dandogli l'idea innata, infinita e perfetta di Dio.
Terza prova: se Dio è un essere perfetto non può mancare di una caratteristica essenziale alla sua perfezione: quella dell'esistenza. L'essenza infinita e perfetta implica, coincide, racchiude in sé, l'esistenza.
PARTE QUINTA: QUESTIONI DI FISICA
Grazie al suo nuovo metodo, Cartesio afferma di non aver solo provato l’esistenza di Dio, ma di aver anche individuato certe leggi che regolano la natura. La descrizione della sua fisica però è molto sommaria, si limita a qualche accenno. Sappiamo che i contenuti della quinta parte del Discorso, proviene da una sua opera precedente, intitolata “il Mondo”.
E’ probabile che abbia evitato di scendere in dettagli per non entrare in conflitto con l’inquisizione, com’era accaduto a Galileo. La vicenda di Galileo ha molto colpito Cartesio, tanto da condizionare certe affermazioni. Ben si comprende che Cartesio è in aperta polemica con la filosofia scolastica, in voga a quei tempi. Tuttavia parla della propria fisica in modo indiretto, affermando di non parlare del nostro universo, ma di un universo diverso, immaginario, supponendo come avrebbero potuto formarsi pianeti ed astri, partendo dalla materia nel caos regolato da leggi fisiche.
Descrive le leggi fisiche della luce, spiegando come attraversava in pochi istanti spazi immensi. E ancora, parla di sostanza, di movimento, del rapporto tra la terra e gli astri. Riflette che magari Dio ha creato il mondo in modo istantaneo, però Cartesio afferma che avrebbe potuto anche formarsi gradualmente, secondo le leggi da lui descritte.
Nel trattato poi passa a descrivere cose, animali, piante, fino a giungere all’uomo. A questo punto Cartesio spiega di aver immaginato la creazione del corpo dell’uomo da parte di Dio soltanto come materia ordinata a formare gli organi, governata dalle stesse regole della materia del corpo degli animali.
Secondo Cartesio Dio aveva creato l‘uomo usando due sostanze:quella fisica e quella mentale. La sostanza fisica si conforma alle leggi naturali della fisica, la sostanza mentale si conforma alle leggi del pensiero.
La bipartizione della realtà nelle due sostanze, quella fisica e quella mentale, è nota come dualismo cartesiano.
Fino alla fine del capitolo si dilunga a descrivere minuziosamente il funzionamento del cuore e poi del sistema nervoso, enfatizzando il concetto di uomo-macchina e di animale-macchina. Questo concetto serviva a Cartesio per provare che la differenza tra uomo ed animale non stava nel corpo, bensì nell’anima. Ed infatti proprio al termine del lungo capitolo sulla fisica, Cartesio enuncia la sua certezza dell’immortalità dell’anima. Partendo dal presupposto che sia un errore considerare l’anima dei buoni uguale all’anima dei cattivi,
e che pertanto non abbiamo nulla da temere né da sperare dopo questa vita, proprio come le mosche e le formiche; mentre quando si conosce quanta differenza ci sia si capiscono molto meglio le ragioni che provano che la nostra è di una natura indipendente dal corpo, e dunque non è destinata a morire con esso; e dal momento che non si vedono altre cause che possano distruggerla, si è portati naturalmente a giudicarla immortale.
PARTE SESTA: Le cose richieste per andare più avanti nello studio della natura
L’ultima parte del Discorso sul Metodo, ha inizio con un preciso riferimento alla vicenda di Galileo. Cartesio afferma che se le autorità ecclesiastiche (che lui conosce e rispetta) non avessero censurato il pensiero dello scienziato, personalmente non avrebbe saputo trovato nulla di disdicevole per la morale religiosa.
Per questo motivo, spiega, non ha mai pubblicato il risultato dei suoi studi di fisica, temendo che potessero essere male interpretati.
Ora però i suoi studi sono provati dal nuovo metodo e lui si sente sicuro delle proprie affermazioni, tanto da ritenere completamente superata e dannosa la disciplina aristotelica, diffusa nelle scuole, che limita le scoperte, mantenendo la gente nell’ignoranza.
La sua filosofia invece fa luce sulle tenebre. Illumina.
Il suo programma è di adottare questo metodo per incrementare le conoscenze in ambito medico e migliorare le condizioni umane.
Privatamente, dice, sta già lavorando insieme a collaboratori scelti a questo progetto di ricerca per il futuro dell’umanità.
Cenni di vita e opere
Cartesio nacque a La Haye nel 1596 e morì di polmonite a Stoccolma nel 1650, a soli 54 anni. Educato dai gesuiti nel collegio di La Flèche, si laureò in diritto a Poitiers e si arruolò nell’esercito protestante olandese. In Olanda scrisse tre trattati importanti, la Diottrica, le Meteore e la Geometria. Le altre opere furono il “Discorso sul Metodo”, le “Meditazioni metafisiche”, i “Principi di filosofia” e “le Passioni dell’anima”.
Elaborò le basi concettuali della geometria analitica, classificando le curve secondo il tipo di equazione ad esse associato. Introdusse l'uso delle ultime lettere dell'alfabeto per designare le incognite e delle prime per designare i termini noti; inventò il metodo degli indici per esprimere le potenze dei numeri; inoltre formulò la regola, nota come regola cartesiana dei segni, per trovare il numero delle radici positive e negative di qualsiasi equazione algebrica.
In quest’opera Cartesio si presenta, parla al lettore delle sue esperienze dirette, offre una propria biografia, essenziale per capire come sia giunto, poi, alle proprie conclusioni.
La lettura del “Discorso sul metodo” è piacevole proprio perché Cartesio dialoga con il lettore come se stesse parlando ad un amico.
Egli scrive:
. ..la lettura dei buoni libri è come una conversazione con gli uomini più illustri del passato …
Ecco, chi legge il suo Discorso sul metodo, ha l’impressione di ascoltarlo raccontare le proprie avventure.
Da notare che Cartesio scrisse l’opera in francese e non in latino, perché, consapevole della portata rivoluzionaria del testo, volle dare al suo pensiero una maggiore possibilità di diffusione.
Nell’introduzione egli avvisa il lettore che l’opera è suddivisa in sei parti ben distinte:
nella prima, introduce l’argomento, parlando della propria esperienza personale.
nella seconda, enuncia le 4 regole del metodo
nella terza, enuncia le 4 regole provvisorie della morale
nella quarta, applicando il metodo prova l'esistenza di Dio e dell'anima
nella quinta, parla di questioni di fisica, parlando della creazione dell’universo; parla poi di anatomia umana ed animale.
nella sesta ed ultima parte descrive il suo progetto di diffusione del suo metodo per il futuro della scienza.
PARTE PRIMA : CONSIDERAZIONI SULLE SCIENZE
Cartesio parte da una riflessione sul buon senso e su come gli uomini lo usino in maniera differente, pur possedendolo tutti allo stesso modo.
Prende se stesso come esempio, affermando di non sentirsi particolarmente geniale rispetto ad altri, semplicemente di aver avuto maggiori opportunità per arricchire il proprio ingegno.
Nacque in Francia a La Haye (che oggi si chiama La Haye Descartes) nel 1596. Proveniva da una famiglia istruita e benestante e potè studiare in una delle scuole migliori d’Europa, presso i gesuiti. Ma ecco cosa dice di quel periodo:
Sono stato nutrito fin dall'infanzia di studi letterari, e poiché mi si faceva credere che per mezzo di essi si potesse acquistare una conoscenza chiara e salda di tutto ciò che è utile alla vita, ero oltremodo desideroso di apprendere. Ma appena compiuto l'intero corso di studi al termine del quale si suole essere accolti nel rango dei dotti, cambiai del tutto opinione.
Pur riconoscendo il valore degli studi compiuti, egli avvertiva la necessità di una scienza unificata, globale, che abbracciasse ed intrecciasse tra loro le tre fondamentali discipline, filosofia, logica e matematica, escludendo i loro propri difetti ed esaltando le loro virtù principali. Vuole trovare non solo un metodo teoretico che serva a distinguere il vero dal falso, ma anche un metodo pratico che dia concreti vantaggi.
Mi piacevano soprattutto le matematiche, per la certezza e l'evidenza delle loro ragioni; ma non ne avevo ancora riconosciuto il vero uso e, pensando che servissero solo alle arti meccaniche, mi stupivo del fatto che, pur essendo le loro fondamenta così sicure e solide, su di esse non si fosse costruito nulla di più alto
(…)
Per questo, non appena l'età mi liberò dalla tutela dei precettori, abbandonai del tutto lo studio delle lettere. E avendo deciso di non cercare altra scienza se non quella che potevo trovare in me stesso oppure nel gran libro del mondo, impiegai il resto della giovinezza a viaggiare, a visitare corti ed eserciti, a frequentare uomini di indole e condizioni diverse, a raccogliere varie esperienze, a mettere alla prova me stesso nei casi che il destino mi offriva (…)
Perché mi sembrava che avrei scoperto molta più verità nei ragionamenti che uno fa sugli affari che lo interessano, (…) che in quelli dell'uomo di lettere, chiuso nel suo studio
Cartesio si laureò in diritto e poi si arruolò in Olanda nell’esercito protestante, deciso ad intraprendere la carriera militare.
Sappiamo che fondamentale per la presa di coscienza della propria volontà ed il relativo cambiamento di direzione, fu l’incontro con il tedesco Isaac Beeckman, medico orientato agli studi filosofici e matematici.
PARTE SECONDA: LE PRINCIPALI REGOLE DEL METODO
Viaggiando come militare, restò bloccato dal cattivo tempo invernale in una cittadina della Germania, costretto per giorni e giorni in una stanzetta riscaldata dalla stufa. Fra i muri di quella stanza, in solitudine, ebbe tempo per riflettere, pensare, raffinare il suo pensiero. E soprattutto fissare le regole per il metodo per raggiungere quella perfetta fusione di logica, filosofia e matematica. Ecco le regole:
1 -L'evidenza:
Non prendere mai niente per vero; basta che ci sia il minimo dubbio per considerare falso il concetto; evitare pregiudizi accettando idee già formulate. L'idea sarà invece senz'altro vera quando è chiara e distinta.
2 - L'analisi:
Dividere il problema in parti semplici, ciò che si sta esaminando non deve essere studiato nella sua totalità perché altrimenti ci si perde nella sua complessità ma va analizzato nelle sue singole parti
3 - La sintesi:
Diviso per quanto è necessario il problema con l'analisi, bisognerà fare poi il percorso inverso, rimettere assieme le parti del problema da quelle più semplici a quelle più complicate.
4 - L'enumerazione (controllo dell'analisi) e la revisione (controllo della sintesi): Non basta con la sintesi aver ricomposto il problema iniziale ora risolto, ma bisogna controllare che durante l'analisi non si sia trascurato alcun elemento e infine la revisione, il controllo della sintesi: solo questa assicura che il risultato ottenuto sia valido
PARTE TERZA: QUALCHE REGOLA DELLA MORALE TRATTA DAL METODO
In questa parte Cartesio pone anche delle condizioni di tipo etico e morale per meglio procedere nella ricerca scientifica.
La prima regola che stabilisce di rispettare le leggi civili e religiose, sembrerebbe dettata dal timore di essere condannato come Galileo.
Egli è senz’altro consapevole che il “dubitare di ogni cosa” poteva facilmente essere interpretato come una forma di ateismo.
La seconda regola è quella di mantenersi risoluto nel portare avanti un progetto iniziato, senza cambiare direzione ma insistendo per raggiungere l’obiettivo prestabilito.
La terza regola è quella di non desiderare l’impossibile, accettando i propri limiti umani.
L’ultima regola infine esorta a continuare a praticare la professione che egli considera la migliore che un uomo possa intraprendere: coltivare la ragione e cercare la sapienza.
Questa terza parte del Discorso sul Metodo, viene chiamata Morale Provvisioria, perchè Cartesio era intenzionato a ritornarci per ottimizzarla, ma non lo fece mai.
PARTE QUARTA: LE PROVE DELL’ESISTENZA DI DIO E DELL’ANIMA UMANA, OSSIA I FONDAMENTI DELLA METAFISICA.
Nella quarta parte del discorso, il pensiero diventa complesso. Qui Descartes applica le regole del metodo per provare l’esistenza di Dio e dell’anima.
Diversamente dalla sua educazione religiosa, egli parte dal presupposto che tutto sia falso.
Dal DUBBIO, dal pensare che tutto sia falso, nasce una prima fondamentale certezza: se io penso che sia falso, comunque IO PENSO e dunque esisto, sono qualcosa.
… dal fatto stesso che pensavo di dubitare della verità delle altre cose, seguiva con assoluta evidenza e certezza che esistevo…
Il celebre motto COGITO, ERGO SUM= PENSO, DUNQUE SONO, nasce qui, in questo contesto. In francese JE PENSE, DONC JE SUIS, che diventa il primo principio della filosofia che stava cercando.
Questo concetto si amplia. L’essere esiste solo fintanto che pensa. Un corpo materiale che non pensa più, non esiste. Dunque l’IO è la mente, completamente distinta dal corpo.
Cartesio afferma che come regola generale la mente concepisce chiaramente e distintamente le cose vere. E che c’è solo qualche difficoltà a stabilire quali vediamo distintamente. Il fatto che la mente di Cartesio dubitasse delle cose, significava che lui era un essere imperfetto, perché anelava ad una perfezione maggiore.
Ma da dove gli proveniva questo istinto a cercare un pensiero superiore? Ne dedusse che doveva provenire da un essere di una natura perfetta.
Per Cartesio bisogna distinguere nel pensiero vari tipi di idee: quelle presenti nell’uomo fin dalla nascita, innate, che rappresentano verità cui l’uomo non può sottrarsi; le idee che provengono dal mondo esterno al pensiero ed alla percezione sensoriale; le idee che provengono dalla fantasia, dall’invenzione del soggetto pensante.
E’ impossibile che l’idea dell’esistenza di un essere superiore, perfetto, provenga dal nulla. Doveva provenire da Dio. A questo punto si domanda di che natura è Dio, dal momento che aveva già stabilito che la natura dell’intelligenza fosse distinta da quella corporea.
Cartesio pone l’esempio dell’oggetto della geometria, concepito come un corpo continuo, uno spazio indefinito, che i geometri suppongono di poter trasferire a piacere. Ma il fatto che le regole di un triangolo fossero dimostrabili, questo non significava che esistesse effettivamente al mondo un triangolo.
Allo stesso modo Dio, in quanto essere perfetto, esiste, perché è certo quanto una dimostrazione geometrica
La maggior parte delle persone fa fatica a cogliere il concetto della propria anima; persino certi filosofi pensano che ciò che non si può immaginare, non è intelligibile.
E mi sembra che quelli che vogliono far uso della loro immaginazione per comprenderle, fanno proprio come se volessero servirsi degli occhi per udire i suoni o sentire gli odori
(….)
Infine, se ci sono ancora degli uomini non abbastanza persuasi dell'esistenza di Dio e della loro anima per le ragioni che ho portato, voglio proprio che sappiano che tutte le altre cose di cui pensano di essere forse più sicuri, come di avere un corpo, e dell'esistenza degli astri, della terra e simili, sono meno certe. Perché sebbene si abbia di queste una certezza morale, tale che non si possa dubitarne a meno di non essere stravaganti, tuttavia, a meno di non essere irragionevoli, quando è in questione una certezza metafisica, non si può neanche negare che sia un motivo sufficiente per non ritenersi interamente certi quello di accorgersi che si può, allo stesso modo, immaginare nel sonno di avere un altro corpo, o di vedere altri astri o un altra terra senza che ci sia nulla di tutto questo
(….)
E si badi che dico: della nostra ragione, e non della nostra immaginazione, o dei nostri sensi. Così il sole, sebbene lo vediamo molto chiaramente, non dobbiamo perciò giudicarlo piccolo come lo vediamo; e possiamo ben immaginare distintamente una testa di leone innestata sul corpo di una capra, senza dover concludere perciò che ci sia al mondo una chimera: perché la ragione non ci dice affatto che quel che così vediamo o immaginiamo è anche vero. Ci dice bensì che tutte le nostre idee o nozioni debbono avere qualche fondamento di verità; giacché in caso contrario non sarebbe possibile che Dio, che è assolutamente perfetto e veritiero, le avesse messe in noi
Cartesio fornisce le prove dell’esistenza di Dio applicando le regole del metodo.
Prima prova: l’idea perfetta di Dio,che si forma nel pensiero imperfetto dell’uomo, non può essere causata dall’uomo ma può solo provenire da un essere perfetto, cioè da Dio.
Seconda prova: se l’uomo si fosse creato da solo, si sarebbe fatto perfetto,
secondo un modello di perfezione, ma se egli non è come quel modello, significa che non si è creato da solo, ma che Dio l’ha creato, finito e imperfetto pur dandogli l'idea innata, infinita e perfetta di Dio.
Terza prova: se Dio è un essere perfetto non può mancare di una caratteristica essenziale alla sua perfezione: quella dell'esistenza. L'essenza infinita e perfetta implica, coincide, racchiude in sé, l'esistenza.
PARTE QUINTA: QUESTIONI DI FISICA
Grazie al suo nuovo metodo, Cartesio afferma di non aver solo provato l’esistenza di Dio, ma di aver anche individuato certe leggi che regolano la natura. La descrizione della sua fisica però è molto sommaria, si limita a qualche accenno. Sappiamo che i contenuti della quinta parte del Discorso, proviene da una sua opera precedente, intitolata “il Mondo”.
E’ probabile che abbia evitato di scendere in dettagli per non entrare in conflitto con l’inquisizione, com’era accaduto a Galileo. La vicenda di Galileo ha molto colpito Cartesio, tanto da condizionare certe affermazioni. Ben si comprende che Cartesio è in aperta polemica con la filosofia scolastica, in voga a quei tempi. Tuttavia parla della propria fisica in modo indiretto, affermando di non parlare del nostro universo, ma di un universo diverso, immaginario, supponendo come avrebbero potuto formarsi pianeti ed astri, partendo dalla materia nel caos regolato da leggi fisiche.
Descrive le leggi fisiche della luce, spiegando come attraversava in pochi istanti spazi immensi. E ancora, parla di sostanza, di movimento, del rapporto tra la terra e gli astri. Riflette che magari Dio ha creato il mondo in modo istantaneo, però Cartesio afferma che avrebbe potuto anche formarsi gradualmente, secondo le leggi da lui descritte.
Nel trattato poi passa a descrivere cose, animali, piante, fino a giungere all’uomo. A questo punto Cartesio spiega di aver immaginato la creazione del corpo dell’uomo da parte di Dio soltanto come materia ordinata a formare gli organi, governata dalle stesse regole della materia del corpo degli animali.
Secondo Cartesio Dio aveva creato l‘uomo usando due sostanze:quella fisica e quella mentale. La sostanza fisica si conforma alle leggi naturali della fisica, la sostanza mentale si conforma alle leggi del pensiero.
La bipartizione della realtà nelle due sostanze, quella fisica e quella mentale, è nota come dualismo cartesiano.
Fino alla fine del capitolo si dilunga a descrivere minuziosamente il funzionamento del cuore e poi del sistema nervoso, enfatizzando il concetto di uomo-macchina e di animale-macchina. Questo concetto serviva a Cartesio per provare che la differenza tra uomo ed animale non stava nel corpo, bensì nell’anima. Ed infatti proprio al termine del lungo capitolo sulla fisica, Cartesio enuncia la sua certezza dell’immortalità dell’anima. Partendo dal presupposto che sia un errore considerare l’anima dei buoni uguale all’anima dei cattivi,
e che pertanto non abbiamo nulla da temere né da sperare dopo questa vita, proprio come le mosche e le formiche; mentre quando si conosce quanta differenza ci sia si capiscono molto meglio le ragioni che provano che la nostra è di una natura indipendente dal corpo, e dunque non è destinata a morire con esso; e dal momento che non si vedono altre cause che possano distruggerla, si è portati naturalmente a giudicarla immortale.
PARTE SESTA: Le cose richieste per andare più avanti nello studio della natura
L’ultima parte del Discorso sul Metodo, ha inizio con un preciso riferimento alla vicenda di Galileo. Cartesio afferma che se le autorità ecclesiastiche (che lui conosce e rispetta) non avessero censurato il pensiero dello scienziato, personalmente non avrebbe saputo trovato nulla di disdicevole per la morale religiosa.
Per questo motivo, spiega, non ha mai pubblicato il risultato dei suoi studi di fisica, temendo che potessero essere male interpretati.
Ora però i suoi studi sono provati dal nuovo metodo e lui si sente sicuro delle proprie affermazioni, tanto da ritenere completamente superata e dannosa la disciplina aristotelica, diffusa nelle scuole, che limita le scoperte, mantenendo la gente nell’ignoranza.
La sua filosofia invece fa luce sulle tenebre. Illumina.
Il suo programma è di adottare questo metodo per incrementare le conoscenze in ambito medico e migliorare le condizioni umane.
Privatamente, dice, sta già lavorando insieme a collaboratori scelti a questo progetto di ricerca per il futuro dell’umanità.
Cenni di vita e opere
Cartesio nacque a La Haye nel 1596 e morì di polmonite a Stoccolma nel 1650, a soli 54 anni. Educato dai gesuiti nel collegio di La Flèche, si laureò in diritto a Poitiers e si arruolò nell’esercito protestante olandese. In Olanda scrisse tre trattati importanti, la Diottrica, le Meteore e la Geometria. Le altre opere furono il “Discorso sul Metodo”, le “Meditazioni metafisiche”, i “Principi di filosofia” e “le Passioni dell’anima”.
Elaborò le basi concettuali della geometria analitica, classificando le curve secondo il tipo di equazione ad esse associato. Introdusse l'uso delle ultime lettere dell'alfabeto per designare le incognite e delle prime per designare i termini noti; inventò il metodo degli indici per esprimere le potenze dei numeri; inoltre formulò la regola, nota come regola cartesiana dei segni, per trovare il numero delle radici positive e negative di qualsiasi equazione algebrica.
IL FEDRO
Immersi nella natura, sulle rive del fiume Ilisso, Socrate e il suo giovane allievo Fedro discutono sulla vera essenza dell'amore, sulla bellezza e sulla forza della passione. La visione magnifica e paradossale di una civiltà basata sui moti dell'animo in uno dei più felici dialoghi platonici.
Fedro é una delle opere più famose di Platone sia perchè filosoficamente parlando rappresenta una pietra miliare nella storia del pensiero, in quanto viene descritta la sorte delle anime dopo la morte e si accenna alla celeberrima dottrina delle idee, sia perchè é uno di quei dialoghi " artisticamente " ben riusciti, che il lettore prova piacere nel leggere.
Le tematiche trattate in quest' opera sono varie e complesse, ma la prima che possiamo ravvisare é l'argomentazione in favore dell'oralità con un mito di ambientazione egizia, simbolo per i Greci di una grande civiltà: il protagonista è Teuth, divinità della scrittura e della saggezza. Egli è un inventore dalle grandi abilità e presenta le sue scoperte al faraone che le promuove sempre con entusiasmo; quando però Teuth propone l'invenzione della scrittura, spiegando che serve a ricordare, il faraone non approva, sostenendo che, al contrario, sortirebbe l'effetto opposto: mettendo le cose per iscritto, infatti, non è più necessario ricordarle. Proprio nel ricordare consisteva la sapienza: le posizioni del faraone possono un pò identificarsi con quelle di Platone, che sostiene che la vera filosofia sia quella orale. E' un'evidente difesa dell'oralità mediante un mito platonico, inventato di sana pianta, cosa che per altro Platone faceva spessissimo. Può sembrare strano che un filosofo, che per definizione è chi cerca di dare spiegazioni razionali e scientifiche, si serva del mito, che non è nient'altro che una spiegazione fondata sulla tradizione e sulla religione: la verità è che per Platone il mito è una cosa al di fuori del comune, che ha ben poco a che fare con la tradizione. Egli sapeva bene che l'argomentazione razionale era migliore, ma sapeva altrettanto bene che un mito, una favola o una metafora possono sortire ottimi effetti: stimolano la fantasia, divertono e restano meglio impressi. Platone se ne serve dunque come arma impropria dell'intelletto.
Inoltre è convinto che si possa dimostrare l'immortalità dell'anima, ma non razionalmente: si serve cosi' di miti esplicativi, detti escatologici: non a caso si parla di "fede razionale"di Platone . Egli sfrutta inoltre i miti per descrivere particolari livelli della realtà: aveva in mente come una scala che vedeva il suo fulcro intorno all'essere, che corrispondeva al pieno livello di conoscenza ( è pienamente conoscibile solo una cosa che è , che esiste pienamente ) : più ci si allontana dall'essere ( sia più in alto , sia più in basso ) e più la conoscenza diventa inferiore. Una cosa non pienamente conoscibile non è pienamente razionale ed il modo migliore per parlarne è il mito.
Un mito molto interessante è quello della "biga alata. Per Platone l'anima è come una biga trainata da cavalli alati : essa è composta da tre elementi : un auriga e due cavalli. Nell'esistenza prenatale le anime degli uomini stavano con quelle degli dei nel cielo, con la possibilità di raggiungere un livello superiore, l'iperuranio, una realtà al di là del mondo fisico che si riconnette alla celeberrima teoria delle idee secondo la quale vi erano due livelli di realtà: il nostro mondo e le idee.
L'auriga impersonificava l'elemento razionale, mentre i cavalli quelli irrazionali:ciò significa che la nostra anima è per Platone costituita da elementi razionali ed irrazionali. Dei due cavalli, uno, di colore bianco , è un destriero da corsa ubbidiente e con spirito competitivo, l'altro, nero, è tozzo, recalcitrante ed incapace: compito dell'auriga è riuscire a dominarli grazie alla sua abilità e alla collaborazione del bianco. Il nero si ribella all'auriga (la ragione)e rappresenta le passioni più infime e basse,legate al corpo. Il bianco rappresenta le passioni spirituali,più elevate e sublimi. Significa che non tutti gli aspetti irrazionali sono negativi e che è comunque impossibile eliminarli:si possono solo controllare con la "metriopazia", la regolazione delle passioni . E' una metafora efficace perchè è vero che guida l'auriga , ma senza i cavalli la biga non si muove: significa che le passioni sono fondamentali per la vita . Sta anche a significare che soltanto alla parte razionale, in quanto dotata di sapere, spetta il governo dell'anima. Anche le anime degli dei hanno i cavalli , ma solo bianchi . Lo scopo è arrivare all'altopiano dell' iperuranio , dal momento che lassù si trova il nutrimento adatto alla parte migliore dell' anima e grazie al quale l' anima riesce a volare : gli dei non incontrano particolari difficoltà , mentre le bighe delle anime umane hanno seri problemi perchè si creano ingorghi ed i cavalli neri tendono a volare nella direzione opposta , verso il basso , ossia verso le cose terrene e sensibili , meno preziose . Accade spesso che le ali dei cavalli si spezzino e la biga precipiti sulla terra : questa è l'incarnazione . Una volta arrivato sulla terra , l'uomo non si ricorda più dell'altra dimensione , e vive con nostalgia : la vita dell'uomo non è nient' altro che un tentativo di tornare a quella situazione primordiale.
Il mito dell'Iperuranio
Nel Fedro, Platone descrive il percorso dell'anima, che prima di incarnarsi si affaccia sulla "Pianura della Verità". Sarà la qualità di questa visione a determinare il tipo di esistenza che avrà sulla Terra.
Il termine Iperuranio indica letteralmente "il luogo sopra il cielo, sopra il cosmo fisico", ovvero un non luogo; in pratica, rinvia a un'immagine aspaziale e atemporale, a una dimensione squisitamente spirituale, metafisica.
Le vie da percorrere per raggiungerla sono due :
a ) la prima via é costituita dalla filosofia , che ci consente di vedere le ombre di quel mondo splendido
b ) la seconda via é costituita dalla bellezza : si tratta di una via più semplice , che fa nascere l'amore ; se ha la meglio il cavallo bianco guidato dall'auriga l'amore assumerà connotazioni sublimi , se vincerà quello nero sarà un amore puramente fisico .
Ma in che cosa consiste l' amore e perchè nella persona amata si vede qualcosa di speciale , di bello che fa sì che la si ami e che la si voglia tutta per sè ?
Platone per rispondere a questa domanda ci parla del bello in sè, cioè dell' idea del bello.
Ci dice che l' amore é " la mania per la quale qualcuno , vedendo la bellezza di quaggiù e ricordandosi di quella vera , mette le ali e così alato arde dal desiderio di levarsi in volo , ma non riuscendovi , guarda verso l' alto come un uccello senza curarsi di quanto avviene quaggiù e guadagnandosi in tal modo l' accusa di essere pazzo " ;
Per Platone chi ama in modo puro arriva addirittura a vedere nella persona amata un barlume di divino , perchè infatti coglie in essa l' idea del bello , una realtà sovrasensibile e divina ed é preso dal desiderio di trattare l' amato come un essere divino
Secondo Platone per gli occhi degli innamorati intercorre un fluido che scorre fino al punto dove le ali dei cavalli s'erano spezzate cosi' che si ricreano e si può tornare alla dimensione primordiale : il liquido che viene a contatto con l'ala spezzata le dà nuovo vigore facendola rispuntare ; proprio quando essa sta ricrescendo,esattamente come i primi denti che spuntano,fa soffrire . Quando si è vicini alla persona amata , contemplandola scorre nuovo flusso che fa passare il dolore dell'anima alimentandola . Quando si è lontani dalla persona amata,invece,non arrivando più il flusso,le ali si inaridiscono e si seccano,accentuando il dolore e la sofferenza . Quindi l'innamorato farà di tutto per vedere il più spesso possibile la persona amata e solo in sua presenza starà bene .
Per Platone c'è una scala gerarchica dell'amore : nei gradini più bassi si trova l'amore fisico,ma per arrivare in cima ad una scala bisogna percorrere tutti i gradini .
Per Platone l'anima ed il corpo hanno caratteristiche opposte: l'una è spirituale e legata all'Iperuranio ( ed é immortale ) , alla dimensione delle idee , mentre l'altro è puramente materiale , affine al mondo sensibile e terreno , e soprattutto è mortale . Mentre il corpo spinge l'uomo a cercare piaceri sensibili e di livello basso , l'anima lo induce a cercare piaceri sublimi e spirituali . E Platone é assolutamente convinto dell' immortalità dell' anima.
Ritornando alla visione platonica dell' amore, la principale differenza tra l'amore di oggi e quello dei tempi di Platone è che al giorno d'oggi abbiamo in mente un amore " bilanciato ", biunivoco , dove i due amanti si amano reciprocamente ; ai tempi di Platone era univoco , uno amava e l'altro si faceva amare ; ecco perchè per tutto il Fedro ci si chiede se sia meglio compiacere chi non ama piuttosto che chi ama , come se non potesse accadere un amore dove ci si ama a vicenda : nel mondo greco o l'uomo amava la donna o l'uomo amava l'uomo : l'omosessualità era diffusissima e non suscitava alcun tipo di scalpore .
Platone ci parla in modo approfondito dell'amore in Greco "eros" , che designa l'amore passionale ed irrazionale diverso da " agapè " , l'amore puro.
Dunque nel "FEDRO" gli argomenti trattati sono due :1 ) l'eros ; 2 ) la retorica .
In effetti risulta piuttosto strana l' idea di collocare nello stesso dialogo due tematiche così diverse , che hanno ben poco in comune , soprattutto se teniamo in considerazione quanto Platone stesso ci dice nel Fedro a proposito di come deve essere strutturata ogni opera d' arte : " sia costituita come un essere vivente " , che abbia un corpo dotato di una parte centrale , una testa , delle membra , insomma degli elementi solidali gli uni con gli altri e con l' insieme .
E' però evidente che nel Fedro Platone non applichi questa teoria da lui stesso propugnata .
Protagonista è Socrate, che si potrebbe dire sempre presente nei dialoghi di Platone sebbene man mano che l'autore matura tenda a sfumare;Socrate in campagna si imbatte in Fedro, un suo discepolo che ama i bei discorsi a tal punto da trascriverli tutti. I due si siedono al riparo dal sole sotto un platano , circondati da un paesaggio incantevole , e Fedro mostra a Socrate un'orazione di Lisia , uno dei più grandi oratori greci,che si è appena trascritto:è un'orazione riguardante l'amore a carattere " sofistico " , si cercano cioè di dimostrare cose paradossali ed assurde: Lisia (va senz'altro notato come Platone ben riproduca lo stile lisiano ) cerca di dimostrare come sia meglio concedersi a chi non ama:Lisia parte dal presupposto che l'amore sia una " follia " e che concedersi a chi ama è una stoltezza:si avrebbe un amore troppo "appiccicaticcio" che se mai si rompesse farebbe soffrire terribilmente l'innamorato-amante ; poi dopo che è passato l'ardore iniziale si torna in sè e ci si rimprovera di esseresi comportati così da "rimbambiti" e si finisce per soffrire di continuo.Con una persona non amata è chiaro che ci si comporterebbe in tutt'altro modo:più che altro si penserebbe ad essere felici noi rispetto all'amato non amato .
Socrate ( incitato da Fedro ) a sua volta imposta due discorsi: nel primo conferma la tesi lisiana,mentre nel secondo sostiene che il suo "demone"(una specie di coscienza personale-angelo custode che si fa sentire solo quando Socrate sta commettendo un errore) lo sta ammonendo,facendogli capire che sta clamorosamente sbagliando . Anche per Socrate l'amore è una follia, però, a differenza di Lisia , per lui è positiva:vi sono infatti follie dannose e negative, ma anche positive e benigne .
Poi Socrate formula un nuovo discorso per farsi perdonare per quel che ha detto dal dio dell'amore ("Eros") , per evitare che la divinità lo punisca .
La vera retorica , ossia la filosofia , per Platone deve agire nel seguente modo ,: " Prima di tutto bisogna conoscere la verità su ciascuna delle questioni di cui si parla o si scrive ; essere in grado di definire ogni cosa in se stessa e , dopo averla definita , saperla di nuovo dividere in base alle specie fino all'indivisibile ; individuare allo stesso modo la natura dell'anima , trovando in genere il discorso adatto a ciascuna natura ; comporre e organizzare il discorso di conseguenza , rivolgendo a a un'anima complessa discorsi complessi e dai molteplici toni , a un'anima semplice discorsi semplici . A questo punto , e non prima , sarà possibile coltivare il genere retorico con la massima arte consentita dalla sua natura , sia per insegnare , sia per convincere " : il fulcro del discorso é chiaramente la conoscenza della verità
Un bellissimo passo del FEDRO, quanto mai attuale per l'uomo d'oggi, spesso prigioniero delle mode, degli anonimi "si dice", delle opinioni, dei pallidi riflessi della verità, cita:
"L'anima che ha visto il maggior numero di esseri è legge che si trapianti in un seme di uomo che dovrà diventare amico del sapere e amico del bello, o amico delle Muse, o desideroso d'amore. Quella che viene seconda, è legge che si trapianti in un re che rispetti la legge o in uomo abile in guerra e adatto al comando. La terza in un uomo politico o in un economista o in un finanziere. La quarta in un uomo che ama le fatiche, o in uno che pratichi la ginnastica o che si dedichi alla guarigione dei corpi. La quinta è destinata ad avere la vita di un indovino o di un iniziatore ai misteri. Alla sesta converrà la vita di un poeta o di qualcun altro di coloro che si occupano dell'imitazione. Alla settima la vita di un artigiano o di un agricoltore. All'ottava la vita di un sofista o di un corteggiatore di popolo. Alla nona la vita di un tiranno".
Come si vede non sono gli onori, le ricchezze, l'appoggio dei potenti a determinarci come uomini e a condizionare il nostro stare nel mondo, bensì il grado di contemplazione della verità.
Fedro é una delle opere più famose di Platone sia perchè filosoficamente parlando rappresenta una pietra miliare nella storia del pensiero, in quanto viene descritta la sorte delle anime dopo la morte e si accenna alla celeberrima dottrina delle idee, sia perchè é uno di quei dialoghi " artisticamente " ben riusciti, che il lettore prova piacere nel leggere.
Le tematiche trattate in quest' opera sono varie e complesse, ma la prima che possiamo ravvisare é l'argomentazione in favore dell'oralità con un mito di ambientazione egizia, simbolo per i Greci di una grande civiltà: il protagonista è Teuth, divinità della scrittura e della saggezza. Egli è un inventore dalle grandi abilità e presenta le sue scoperte al faraone che le promuove sempre con entusiasmo; quando però Teuth propone l'invenzione della scrittura, spiegando che serve a ricordare, il faraone non approva, sostenendo che, al contrario, sortirebbe l'effetto opposto: mettendo le cose per iscritto, infatti, non è più necessario ricordarle. Proprio nel ricordare consisteva la sapienza: le posizioni del faraone possono un pò identificarsi con quelle di Platone, che sostiene che la vera filosofia sia quella orale. E' un'evidente difesa dell'oralità mediante un mito platonico, inventato di sana pianta, cosa che per altro Platone faceva spessissimo. Può sembrare strano che un filosofo, che per definizione è chi cerca di dare spiegazioni razionali e scientifiche, si serva del mito, che non è nient'altro che una spiegazione fondata sulla tradizione e sulla religione: la verità è che per Platone il mito è una cosa al di fuori del comune, che ha ben poco a che fare con la tradizione. Egli sapeva bene che l'argomentazione razionale era migliore, ma sapeva altrettanto bene che un mito, una favola o una metafora possono sortire ottimi effetti: stimolano la fantasia, divertono e restano meglio impressi. Platone se ne serve dunque come arma impropria dell'intelletto.
Inoltre è convinto che si possa dimostrare l'immortalità dell'anima, ma non razionalmente: si serve cosi' di miti esplicativi, detti escatologici: non a caso si parla di "fede razionale"di Platone . Egli sfrutta inoltre i miti per descrivere particolari livelli della realtà: aveva in mente come una scala che vedeva il suo fulcro intorno all'essere, che corrispondeva al pieno livello di conoscenza ( è pienamente conoscibile solo una cosa che è , che esiste pienamente ) : più ci si allontana dall'essere ( sia più in alto , sia più in basso ) e più la conoscenza diventa inferiore. Una cosa non pienamente conoscibile non è pienamente razionale ed il modo migliore per parlarne è il mito.
Un mito molto interessante è quello della "biga alata. Per Platone l'anima è come una biga trainata da cavalli alati : essa è composta da tre elementi : un auriga e due cavalli. Nell'esistenza prenatale le anime degli uomini stavano con quelle degli dei nel cielo, con la possibilità di raggiungere un livello superiore, l'iperuranio, una realtà al di là del mondo fisico che si riconnette alla celeberrima teoria delle idee secondo la quale vi erano due livelli di realtà: il nostro mondo e le idee.
L'auriga impersonificava l'elemento razionale, mentre i cavalli quelli irrazionali:ciò significa che la nostra anima è per Platone costituita da elementi razionali ed irrazionali. Dei due cavalli, uno, di colore bianco , è un destriero da corsa ubbidiente e con spirito competitivo, l'altro, nero, è tozzo, recalcitrante ed incapace: compito dell'auriga è riuscire a dominarli grazie alla sua abilità e alla collaborazione del bianco. Il nero si ribella all'auriga (la ragione)e rappresenta le passioni più infime e basse,legate al corpo. Il bianco rappresenta le passioni spirituali,più elevate e sublimi. Significa che non tutti gli aspetti irrazionali sono negativi e che è comunque impossibile eliminarli:si possono solo controllare con la "metriopazia", la regolazione delle passioni . E' una metafora efficace perchè è vero che guida l'auriga , ma senza i cavalli la biga non si muove: significa che le passioni sono fondamentali per la vita . Sta anche a significare che soltanto alla parte razionale, in quanto dotata di sapere, spetta il governo dell'anima. Anche le anime degli dei hanno i cavalli , ma solo bianchi . Lo scopo è arrivare all'altopiano dell' iperuranio , dal momento che lassù si trova il nutrimento adatto alla parte migliore dell' anima e grazie al quale l' anima riesce a volare : gli dei non incontrano particolari difficoltà , mentre le bighe delle anime umane hanno seri problemi perchè si creano ingorghi ed i cavalli neri tendono a volare nella direzione opposta , verso il basso , ossia verso le cose terrene e sensibili , meno preziose . Accade spesso che le ali dei cavalli si spezzino e la biga precipiti sulla terra : questa è l'incarnazione . Una volta arrivato sulla terra , l'uomo non si ricorda più dell'altra dimensione , e vive con nostalgia : la vita dell'uomo non è nient' altro che un tentativo di tornare a quella situazione primordiale.
Il mito dell'Iperuranio
Nel Fedro, Platone descrive il percorso dell'anima, che prima di incarnarsi si affaccia sulla "Pianura della Verità". Sarà la qualità di questa visione a determinare il tipo di esistenza che avrà sulla Terra.
Il termine Iperuranio indica letteralmente "il luogo sopra il cielo, sopra il cosmo fisico", ovvero un non luogo; in pratica, rinvia a un'immagine aspaziale e atemporale, a una dimensione squisitamente spirituale, metafisica.
Le vie da percorrere per raggiungerla sono due :
a ) la prima via é costituita dalla filosofia , che ci consente di vedere le ombre di quel mondo splendido
b ) la seconda via é costituita dalla bellezza : si tratta di una via più semplice , che fa nascere l'amore ; se ha la meglio il cavallo bianco guidato dall'auriga l'amore assumerà connotazioni sublimi , se vincerà quello nero sarà un amore puramente fisico .
Ma in che cosa consiste l' amore e perchè nella persona amata si vede qualcosa di speciale , di bello che fa sì che la si ami e che la si voglia tutta per sè ?
Platone per rispondere a questa domanda ci parla del bello in sè, cioè dell' idea del bello.
Ci dice che l' amore é " la mania per la quale qualcuno , vedendo la bellezza di quaggiù e ricordandosi di quella vera , mette le ali e così alato arde dal desiderio di levarsi in volo , ma non riuscendovi , guarda verso l' alto come un uccello senza curarsi di quanto avviene quaggiù e guadagnandosi in tal modo l' accusa di essere pazzo " ;
Per Platone chi ama in modo puro arriva addirittura a vedere nella persona amata un barlume di divino , perchè infatti coglie in essa l' idea del bello , una realtà sovrasensibile e divina ed é preso dal desiderio di trattare l' amato come un essere divino
Secondo Platone per gli occhi degli innamorati intercorre un fluido che scorre fino al punto dove le ali dei cavalli s'erano spezzate cosi' che si ricreano e si può tornare alla dimensione primordiale : il liquido che viene a contatto con l'ala spezzata le dà nuovo vigore facendola rispuntare ; proprio quando essa sta ricrescendo,esattamente come i primi denti che spuntano,fa soffrire . Quando si è vicini alla persona amata , contemplandola scorre nuovo flusso che fa passare il dolore dell'anima alimentandola . Quando si è lontani dalla persona amata,invece,non arrivando più il flusso,le ali si inaridiscono e si seccano,accentuando il dolore e la sofferenza . Quindi l'innamorato farà di tutto per vedere il più spesso possibile la persona amata e solo in sua presenza starà bene .
Per Platone c'è una scala gerarchica dell'amore : nei gradini più bassi si trova l'amore fisico,ma per arrivare in cima ad una scala bisogna percorrere tutti i gradini .
Per Platone l'anima ed il corpo hanno caratteristiche opposte: l'una è spirituale e legata all'Iperuranio ( ed é immortale ) , alla dimensione delle idee , mentre l'altro è puramente materiale , affine al mondo sensibile e terreno , e soprattutto è mortale . Mentre il corpo spinge l'uomo a cercare piaceri sensibili e di livello basso , l'anima lo induce a cercare piaceri sublimi e spirituali . E Platone é assolutamente convinto dell' immortalità dell' anima.
Ritornando alla visione platonica dell' amore, la principale differenza tra l'amore di oggi e quello dei tempi di Platone è che al giorno d'oggi abbiamo in mente un amore " bilanciato ", biunivoco , dove i due amanti si amano reciprocamente ; ai tempi di Platone era univoco , uno amava e l'altro si faceva amare ; ecco perchè per tutto il Fedro ci si chiede se sia meglio compiacere chi non ama piuttosto che chi ama , come se non potesse accadere un amore dove ci si ama a vicenda : nel mondo greco o l'uomo amava la donna o l'uomo amava l'uomo : l'omosessualità era diffusissima e non suscitava alcun tipo di scalpore .
Platone ci parla in modo approfondito dell'amore in Greco "eros" , che designa l'amore passionale ed irrazionale diverso da " agapè " , l'amore puro.
Dunque nel "FEDRO" gli argomenti trattati sono due :1 ) l'eros ; 2 ) la retorica .
In effetti risulta piuttosto strana l' idea di collocare nello stesso dialogo due tematiche così diverse , che hanno ben poco in comune , soprattutto se teniamo in considerazione quanto Platone stesso ci dice nel Fedro a proposito di come deve essere strutturata ogni opera d' arte : " sia costituita come un essere vivente " , che abbia un corpo dotato di una parte centrale , una testa , delle membra , insomma degli elementi solidali gli uni con gli altri e con l' insieme .
E' però evidente che nel Fedro Platone non applichi questa teoria da lui stesso propugnata .
Protagonista è Socrate, che si potrebbe dire sempre presente nei dialoghi di Platone sebbene man mano che l'autore matura tenda a sfumare;Socrate in campagna si imbatte in Fedro, un suo discepolo che ama i bei discorsi a tal punto da trascriverli tutti. I due si siedono al riparo dal sole sotto un platano , circondati da un paesaggio incantevole , e Fedro mostra a Socrate un'orazione di Lisia , uno dei più grandi oratori greci,che si è appena trascritto:è un'orazione riguardante l'amore a carattere " sofistico " , si cercano cioè di dimostrare cose paradossali ed assurde: Lisia (va senz'altro notato come Platone ben riproduca lo stile lisiano ) cerca di dimostrare come sia meglio concedersi a chi non ama:Lisia parte dal presupposto che l'amore sia una " follia " e che concedersi a chi ama è una stoltezza:si avrebbe un amore troppo "appiccicaticcio" che se mai si rompesse farebbe soffrire terribilmente l'innamorato-amante ; poi dopo che è passato l'ardore iniziale si torna in sè e ci si rimprovera di esseresi comportati così da "rimbambiti" e si finisce per soffrire di continuo.Con una persona non amata è chiaro che ci si comporterebbe in tutt'altro modo:più che altro si penserebbe ad essere felici noi rispetto all'amato non amato .
Socrate ( incitato da Fedro ) a sua volta imposta due discorsi: nel primo conferma la tesi lisiana,mentre nel secondo sostiene che il suo "demone"(una specie di coscienza personale-angelo custode che si fa sentire solo quando Socrate sta commettendo un errore) lo sta ammonendo,facendogli capire che sta clamorosamente sbagliando . Anche per Socrate l'amore è una follia, però, a differenza di Lisia , per lui è positiva:vi sono infatti follie dannose e negative, ma anche positive e benigne .
Poi Socrate formula un nuovo discorso per farsi perdonare per quel che ha detto dal dio dell'amore ("Eros") , per evitare che la divinità lo punisca .
La vera retorica , ossia la filosofia , per Platone deve agire nel seguente modo ,: " Prima di tutto bisogna conoscere la verità su ciascuna delle questioni di cui si parla o si scrive ; essere in grado di definire ogni cosa in se stessa e , dopo averla definita , saperla di nuovo dividere in base alle specie fino all'indivisibile ; individuare allo stesso modo la natura dell'anima , trovando in genere il discorso adatto a ciascuna natura ; comporre e organizzare il discorso di conseguenza , rivolgendo a a un'anima complessa discorsi complessi e dai molteplici toni , a un'anima semplice discorsi semplici . A questo punto , e non prima , sarà possibile coltivare il genere retorico con la massima arte consentita dalla sua natura , sia per insegnare , sia per convincere " : il fulcro del discorso é chiaramente la conoscenza della verità
Un bellissimo passo del FEDRO, quanto mai attuale per l'uomo d'oggi, spesso prigioniero delle mode, degli anonimi "si dice", delle opinioni, dei pallidi riflessi della verità, cita:
"L'anima che ha visto il maggior numero di esseri è legge che si trapianti in un seme di uomo che dovrà diventare amico del sapere e amico del bello, o amico delle Muse, o desideroso d'amore. Quella che viene seconda, è legge che si trapianti in un re che rispetti la legge o in uomo abile in guerra e adatto al comando. La terza in un uomo politico o in un economista o in un finanziere. La quarta in un uomo che ama le fatiche, o in uno che pratichi la ginnastica o che si dedichi alla guarigione dei corpi. La quinta è destinata ad avere la vita di un indovino o di un iniziatore ai misteri. Alla sesta converrà la vita di un poeta o di qualcun altro di coloro che si occupano dell'imitazione. Alla settima la vita di un artigiano o di un agricoltore. All'ottava la vita di un sofista o di un corteggiatore di popolo. Alla nona la vita di un tiranno".
Come si vede non sono gli onori, le ricchezze, l'appoggio dei potenti a determinarci come uomini e a condizionare il nostro stare nel mondo, bensì il grado di contemplazione della verità.
LA GRECIA NEL V SECOLO
Quadro storico
All'inizio del VI sec. a.C., quando le città ioniche erano in piena espansione economica e culturale, Atene si trovava ancora in una situazione di estrema arretratezza: non si poteva ancora parlare di polis e la terra era divisa fra famiglie aristocratiche indipendenti, accanto alle quali vivevano molti agricoltori proprietari dei campi che coltivavano direttamente.
In questa situazione i contadini cominciarono ad avanzare rivendicazioni presso le famiglie aristocratiche, chiedendo l'abolizione dei debiti e la soppressione della schiavitù.
Per risolvere questo conflitto furono affidati poteri eccezionali a Solone, il quale quindi assunse il ruolo di mediatore e legislatore.
Sul piano economico-sociale Solone cancellò i debiti e la schiavitù, ma non si spinse sino alla redistribuzione delle terre. Più importanti furono le riforme politiche, che cambiarono il tessuto sociale della città: innanzitutto fu eliminata la divisione dei cittadini in base all'appartenenza a famiglie aristocratiche, sostituendo una divisione basata sulla ricchezza; fu aumentato il peso del popolo negli organi di governo, attraverso forme di rappresentanza.
Da questo momento in avanti la via era tracciata, e grandi personalità aristocratiche come Pisistrato, Clistene e Pericle, amplieranno ulteriormente gli spazi per la partecipazione del popolo al governo della città.
Scheda cronologica: V secolo
490: battaglia di Maratona
480: battaglia di Salamina
477: Lega delio-attica guidata da Atene
472: rappresentazione dei "Persiani" di Aiskhulos a Atene
c.470: nascita di Sokrates
462: ingresso di Perikles nella vita politica ateniese: riforma demo- cratica della costituzione
c.460: primo agone comico a Atene nascita di Democrito "Discobolo" di Mirone
458: rappresentazione dell'"Orestiade" di Aiskhulos
457-451: prima guerra del Peloponneso
c.451: leggi delle "12 tavole" a Roma
446: pace trentennale tra Atene e Sparta
443-429: età di Perikles soggiorno di Herodotos a Atene primo sviluppo della sofistica con Protagora
seconda metà del V secolo: egemonia di Atene sulle città della Lega delio-attica produzione tragica di Sofokles e Euripides costruzione del Partenone, dei Propilei e dell'Eretteo sull' Acropoli di Atene Fidia e Policleto riforma del calendario da parte dell'astronomo Metone il filosofo Anassagora a Atene
431-421: seconda guerra del Peloponneso: inizio dell'egemonia spartana
c.430: attività del medico Ippocrate di Cos
427: il sofista Gorgia a Atene
427-388: il commediografo Aristofanes
Quadro culturale
In questo contesto nacque l'esigenza di riappropriarsi del patrimonio mitico tipico della tradizione greca, attraverso però una reinterpretazione di esso in funzione dei nuovi problemi connessi alla città. Questo fu il compito del teatro tragico,spettacolo al quale potevano partecipare gratuitamente tutti i cittadini e che divenne il centro religioso, politico e culturale della città. Accanto alla tragedia si diffuse anche la commedia, che trattava argomenti politici di maggiore immediatezza (quanto alla tragedia occorre ricordare che i maggiori autori furono Eschilo, Sofocle ed Euripide, mentre per la commedia il principale autore fu Aristofane).
Oltre al teatro la cultura greca conobbe un grande sviluppo della storiografia politica e a questo proposito occorre ricordare lo storico ionico Erodoto il quale con i suoi interessi etnologici, naturalistici ed economici, risponde alle esigenze di informazione di un popolo di mercanti e viaggiatori come erano gli abitanti delle colonie ioniche, e testimonia anche dell'influsso del pensiero dei filosofi ionici.
Diversa è invece l'impostazione che alla storia diedero gli storici ateniesi Tucidide e Senofonte, i quali operarono una rigorosa selezione del materiale utilizzato escludendo i riferimenti ai costumi religiosi e civili dei popoli, agli aspetti tecnico-economici, ai problemi geografico-scientifici, per concentrare tutta l'attenzione sui capi politici e militari della città di Atene.
Il pensiero dei sofisti
I sofisti erano dei maestri di virtù che si facevano pagare per i loro insegnamenti. Per tale motivo furono criticati aspramente dai loro contemporanei, soprattutto da Socrate e poi da Platone e Aristotele.
Coloro che maggiormente si affidano all'insegnamenti di questi filosofi sono i ceti aristocratici. I sofisti furono i primi ad elaborare il concetto occidentale di cultura (paideia) da Paride, non intesa come un insieme di conoscenze specializzate, ma come la formazione di un individuo nell'ambito di un popolo o di un contesto sociale. La retorica è l'argomento centrale del loro insegnamento;loro insegnano la morale, le leggi, i sistemi politici. Educano quindi i giovani a diventare cittadini attivi, cioè avvocati o militanti politici; ma per essere cittadini attivi, oltre ad avere buone conoscenze, bisogna anche essere convincenti, quindi la retorica è messa alla base della sofistica. I sofisti infatti,non si interrogano sulle questioni dei filosofi presocratici, trascurando la ricerca dell'arche originario ,ma soffermandosi sulla vita umana, diventando così i primi umanisti.
Due tesi convivono, l'una accanto all'altra, sui sofisti: quella che li vuole assertori del soggettivismo, del relativismo e dell'individualismo (contro l'oggettivismo e il naturalismo della filosofia precedente), e quella che li considera i fondatori della pedagogia e dell'umanesimo antichi.
Grandi sofisti: Protagora, Gorgia, Prodico e Ippia
Sofisti naturali: quelli che si interessano del rapporto natura-uomo
Sofisti politici: Crizia, Callicle
Eristi: portano all’esasperazione il metodo: Antifonte, Crizia, Menone
L'insegnamento
Con la comparsa dei sofisti nascono i luoghi deputati all'insegnamento: le case dei cittadini più ricchi, le piazze, le palestre pubbliche queste comprendevano dei portici in cui i filosofi potevano passeggiare con i loro discepoli, e sedere in banchi dove potevano discutere con i loro allievi. La scelta del luogo in cui insegnare era molto spesso legata al tipo di "sapienza" professata: Socrate scelse la strada e la piazza pubblica per mostrare la sua disponiblità verso tutti i cittadini e il disinteresse per il pagamento. Lo stesso faranno i cinici, durante le epoche successive. Diversamente gli accademici, i peripatetici, e gli stoici, si trovarono sempre meglio rappresentati in luoghi attrezzati con strumenti scientifici e biblioteche, oppure a servizio di qualche potente. Tuttavia la sofistica non è una scuola filosofica in senso proprio, per lo più si tratta di un movimento.
Caratteristico dei sofisti è il distacco dal pensiero eleatico (Parmenide, Zenone) e il loro avvicinamento alle "cose umane". Essi amano di più discutere sui poeti che sugli argomenti della filosofia precedente, tanto che tra le osservazioni principali che vengono fatte su di loro c'è quella secondo cui avrebbero spostato l'obiettivo della ricerca dalla natura all'uomo. La loro problematica è legata ad argomenti concreti e attuali della città in cui operano, e anche per questo devono aver sentito come lontane le dispute astratte dei filosofi eleatici. La cultura che essi divulgano non è più riservata a pochi eletti, ma a tutti coloro che ne vogliono fruire (salvo sempre un minimo di possibilità economiche per pagare le loro lezioni).
PROTAGORA
Protagora 481 a.C. - 420 a.C., filosofo presocratico nato ad Abdera nell'antica Grecia e annoverato da Socrate tra i sofisti, fu un famoso maestro nell'arte del dialogo e della discussione. Fu concittadino di Democrito ma non scolaro (Protagora era più anziano di vent'anni di Democrito). Venne esiliato per le sue affermazioni agnostiche ritenute "scandalose" ai suoi tempi.
Affascinato dallo studio del corretto uso delle parole, Protagora ha coniato un'espressione che, nonostante la fama di cui gode, non può essere interpretata con certezza, dal momento che è stata estrapolata dal contesto originale di riferimento:
"L'uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono" - solitamente ritenuta una professione di relativismo, a seconda del significato di uomo e di cose abbiamo dei diversi significati del termine:
1. uomo come "singolo individuo" e cose come "oggetti" è relativismo conoscitivo;
2. cose come "morale" si tratta di relativismo morale;
3. uomo come "comunità" è relativismo culturale;
4. uomo come "genere umano" è fenomenismo.
Il suo insegnamento spinse per opposizione i filosofi posteriori, come Platone, a ricercare e individuare riferimenti oggettivi e trascendenti su cui fondare il comportamento etico e la condotta morale. Il tema della soggettività è tornato di attualità con l'avvento della filosofia moderna. Fra i moderni eredi del pensiero di Protagora figurano soprattutto Montaigne, autentico erede del suo relativismo ed Emerson, il maggiore erede del suo antropocentrismo pragmatico.
Protagora fu anche un sostenitore dell'agnosticismo:
"A proposito degli dei, non ho mezzi per sapere se esistono o meno o come essi siano a causa dell'oscurità del soggetto e della brevità della vita umana".
Sviluppò l'uso delle antilogie, ovvero scritti in cui si cerca di dimostrare due tesi contrapposte ("la malattia è un male per il malato, ma un bene per il medico"). Con ciò voleva mettere in discussione l'esistenza di una verità assoluta. Tutto ciò si collegava a "rendere forte il discorso debole" cioè che con l'uso della dialettica e della retorica si può dimostrare tutto.
Sosteneva inoltre che la giustizia non è divina e si riduce all'utile ("Il giusto è l'utile della città"), ed era compito di tutti i cittadini stabilire le leggi in base all'utilità pubblica e privata. Inoltre "la virtù politica è distribuita equamente fra tutti gli uomini".
Abbiamo detto che Protagora si considerava maestro di virtù, infatti egli insegnava tutto ciò di cui una persona aveva bisogno per condurre gli affari della casa e per diventare un abile politico. Protagora è esponente di una nuova mentalità, testimoniata nell'opera "Sugli dèi" (libro che fu bruciato in pubblico, costringendo il sofista alla fuga in cui poi trovò la morte), dove egli, più che criticare la divinità, sostiene l'indifferenza come unico atteggiamento possibile, in quanto "sugli dèi non è possibile sapere nulla di certo".
Un'altra importante testimonianza proviene da un frammento di "La verità o discorsi demolitori", in cui egli afferma che "l'uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono e di quelle che non sono", esprimendo così in modo lapidario quel soggettivismo e quel relativismo che faranno a lungo discutere (per alcuni studiosi moderni "uomo" sta ad indicare tutta l'umanità, per cui non si potrebbe parlare di soggettivismo, ma per gli antichi indicava il singolo individuo, da cui tutte le critiche che gli furono mosse).
Altre informazioni ci provengono dalle parole che Platone fa pronunciare a Protagora nella sua difesa dalle accuse di Socrate, e dalle quali emerge chiaramente che con quel "di quelle che sono e di quelle che non sono" il sofista intende lasciarsi alle spalle la problematica sull'Essere, in quanto ora importa solo all'uomo di valutare le cose, perché è lui a doverne fare uso. Ciò che conta è, in particolare, l'arte del saper ben parlare ed esporre le proprie opinioni, in modo da convincere l'ascoltatore.
GORGIA
Gorgia di Leontini, in Sicilia, fu discepolo di Empedocle; sappiamo che nel 427 a.C. era ad Atene per una missione diplomatica e si suppone che sia vissuto fra il 484/3 e il 376/5 a.C. (107 anni!). Di lui rimane qualche brano dell'opera "Sulla natura e del non-essere" e il titolo di qualche celebre orazione (Elegia degli dèi, Orazione funebre); sappiamo anche che viaggiò moltissimo e che divenne quindi molto ricco grazie ai proventi della sua attività di sofista.
Per Gorgia la retorica è arte produttrice di persuasione, dove il logos viene assimilato per il suo potere al destino. Il frammento più importante è quello che rimane dell'opera "Non-essere", dove Gorgia fa una triplice affermazione:
- l'essere non è;
- se anche fosse non sarebbe conoscibile;
- se fosse conoscibile non sarebbe esprimibile.
Questa sua idea viene oramai interpretata nel senso di un radicale nichilismo ed una critica al pensiero di Parmenide, di cui viene messa in luce l'equivocità a proposito del termine "essere", usato ora nel senso di "esistere", ora invece nel senso puramente copulativo. Va rilevato inoltre lo spostamento del problema dall'essere in quanto tale alla sua conoscibilità ed alla conseguente possibilità di esprimerlo.
DEMOCRITO
Democrito, filosofo presocratico, nacque ad Abdera nella regione della Tracia intorno al 460 a.C. e morì assai vecchio, apparentemente centenario intorno al 360 a.C.. Allievo di Leucippo, fu co-fondatore dell'atomismo. È praticamente impossibile distinguere le idee attribuibili a Democrito da quelle del suo maestro.
Vita e opere
Poco sappiamo della sua vita, che si perde nell'aneddoto e talora nella leggenda. Cresciuto tra gli agi e le ricchezze, pare abbia rinunciato, in seguito, ad una parte dei suoi averi per dedicarsi esclusivamente agli studi e ai viaggi, ma anche che abbia perso la vista. Si tramanda che si sia spinto sia in Egitto, che in Etiopia che nell'India. Egli stesso dice: "Io sono, tra i miei contemporanei, quello che ha precorso la maggior parte della Terra, facendo ricerca delle cose più strane; e vidi cieli e terre numerosissime; e udii la maggior parte degli uomini dotti". Fu anche, ovviamente ad Atene. Qui, sebbene non abbia trovato considerazione, ebbe modo di vivere a contatto con la cultura sofistico-socratica, che lasciò tracce visibili sul suo sistema di natura enciclopedica. Egli scrisse "La piccola cosmologia", "Sulla natura", "Sulle forme degli atomi", "Sulle parole".
La teoria atomistica
La teoria atomistica prende forma da un immediato ragionamento: se la materia si dividesse all'infinito essa non sarebbe più. Deve esistere una particella indivisibile, dunque, che stia alla base della materia (a-temno). Questa teoria è in contrapposizione con quella di Parmenide e Zenone di Elea. Gli atomi si differenziano fra loro per la forma e la grandezza, si muovono nel vuoto ma sono di materia piena. Egli sostiene inoltre che se noi percepiamo la realtà in modo differente, questa diversità tra le cose è data dai flussi di atomi che si muovono vorticosamente nell'atmosfera e "colpiscono" i nostri organi sensoriali.
Se la filosofia di Parmenide negava il mondo molteplice come vera illusione, quella di Democrito per ammettere tale realtà doveva postulare l'esistenza di due principi: gli atomi (che costituiscono "l'essere" nel senso di Parmenide) e il vuoto in cui si muovono (il "non essere"). La contraddittorietà di due archè sarà risolta da Platone. Rimane però nella storia della filosofia il paradosso delle due totalità che verrà esaminato da Hegel.
Nella sua lunga esistenza Democrito scrisse anche opere di etica, in cui affermava che l'interesse maggiore dell'uomo deve essere la felicità, che si ricerca attraverso una moderata cancellazione della paura: per questo egli divenne noto come il "filosofo del riso", a differenza del triste e pessimista Eraclito che venne definito il "filosofo del pianto".
Il divino
Così come per il resto della materia, anche l'anima (psychè) per Democrito era costituita da atomi, atomi più sottili e lisci, di natura ignea. Essi penetrano tutto il corpo e gli danno vita e vengono mantenuti in esso grazie alla respirazione, inoltre grazie a questa capacità di vivificare, di render pensante l'uomo, erano considerati divini. Infine Democrito,sostiene che gli Dei sono fatti di atomi proprio come gli esseri umani, ma che non interagiscono affatto con noi: questo fatto lo fece considerare come un vero e proprio anticonformista e ateo, una vera rarità ai suoi tempi
Conoscenza
Per Democrito, gli atomi al di fuori di noi, tramite i sensi, venivano a contatto con quelli simili che erano presenti nel nostro corpo, generando cosi la conoscenza. Divideva la conoscenza in: sensazione e conoscenza intellettiva; la prima puramente soggettiva e oscura, la seconda vista come conoscenza genuina.
La morale
La moralità per Democrito consiste essenzialmente nella felicità come fine della vita .Ma una felicità non nel possedere beni materiali,ma nell' esser saggi e nel condurre una vita giusta.Bisogna esser coraggiosi non in guerra, ma contro i piaceri sensibili che rendono schiavi del piacere l' uomo. Dà risalto anche alla volontà dell' uomo di voler bene, non solo nel non farlo, esortando di aver paura dell' odio, dell' invidia liberandosi così da ogni vizio. Questo saper vivere nel giusto mezzo implica il saper equilibrare i piaceri e i doveri della vita, cosa che un filosofo è tenuto a sapere.
SOCRATE
(470 a.C. – 399 a.C.) è stato un filosofo greco. È uno dei più importanti esponenti della tradizione filosofica occidentale.
Il contributo più importante al pensiero occidentale è il suo metodo d'indagine, conosciuto come elenchos, che applicò prevalentemente all'esame critico di concetti morali fondamentali. Per questo Socrate è riconosciuto come padre fondatore dell'etica o filosofia morale e della filosofia in generale.
È ben noto il fatto che Socrate non ha lasciato alcuno scritto. Il suo pensiero lo ricaviamo dalle opere dei discepoli, tra cui spicca soprattutto Platone e, di seguito, Senofonte. Un'altra testimonianza la troviamo ne Le nuvole, commedia di Aristofane. La mancanza di scritti di parte di Socrate pone notevoli problemi alla possibilità di ricostruire il suo pensiero originale, in particolar modo risulta arduo distinguerlo da quello di Platone.
Il pensiero socratico
Il metodo socratico dell'elenchos consiste in domande e risposte riguardo le definizioni o logoi (singolare logos), cercando di determinare le caratteristiche generali condivise da varie istanze particolari. Visto che questo metodo è mirato a estrarre le definizioni implicite nelle idee e convinzioni dell'interlocutore, o ad aiutarlo a migliorarne la sua comprensione, fu chiamato metodo della maieutica.
Tale esame sfidò le assunzioni implicite nelle convinzioni morali degli interlocutori, portandone alla luce le contraddizioni e le inadeguatezze, e normalmente generando in loro lo stupore e smarrimento conosciuto come aporia. Riguardo a tali inadeguatezze, Socrate sempre professò la propria ignoranza, mentre altri continuarono a sostenere di essere sapienti. Socrate rispose che, essendo conscio della propria ignoranza, egli era più saggio di coloro che, essendo ignoranti, continuavano a professare la propria sapienza (teoria della dotta ignoranza). La consapevolezza del sapere di non sapere è una coscienza e una verità evidente e innegabile, che dimostra intanto che la verità e la coscienza esistono e sono possibili (essendovene una). Socrate pose il sapere di non sapere a fondamento di qualunque altra verità e conoscenza. Questa paradossale affermazione fu trasmessa nell'aneddoto dell'oracolo di Delfi che dichiarò che Socrate fosse il piú sapiente di tutti gli uomini.
Socrate utilizzò questa dichiarazione come base per le proprie esortazioni morali. Socrate sosteneva che la principale virtù fosse la cura della propria anima tramite verità e conoscenza, che ricchezza non porta virtù, ma virtù porta ricchezza e ogni altra benedizione, sia all'individuo che allo stato e che una vita senza esame non valesse la pena di essere vissuta. Socrate pure sostenne che subire un'ingiustizia è meglio che commetterla.
Il tema della dotta ignoranza
Tutto il pensiero socratico nasce dal tema dell'ignoranza. La figura del filosofo secondo Socrate è completamente opposta a quella del saccente. L'origine della filosofia socratica si può far risalire ad una frase pronunciata dalla Pizia (sacerdotessa dell'oracolo di Delfi): "Socrate è l'uomo più saggio tra tutti". È proprio questa frase che pone Socrate nella situazione di porgersi e porgere agli altri (quelli che pensano di sapere le verità) continue domande sul come e sul perché di tutto (si potrebbe a questo punto paragonare Socrate ad un bambino). E si rese conto che era stato definito il più saggio perché "sapeva di non sapere".
L'intellettualismo etico
Socrate sosteneva che la causa del male è soltanto l'ignoranza: chi commette il male, se sapesse non lo farebbe. Questo collega l'etica al problema della ricerca della verità: una scienza del bene e del male per eliminare il male ed avere un comportamento perfettamente etico, richiedono prima di dimostrare che esiste la verità, ossia che non si perde tempo a ricercare qualcosa che non esiste, e possibilmente di definire un metodo per trovare qualunque verità, anche non etica. Perciò, non riconosce nel comportamento acivico dei sofisti e di quanti lo condannarono a morte una colpa, ma un'ignoranza di fondo (della propria ignoranza, dell'esistenza) che davanti alle loro coscienze li legittimava ad agire per l'utile, anche uccidendo un uomo.
Socrate era abile oratore e uomo colto, amante dell'arte e delle scienze come il discepolo Platone, e con la maieutica aspirava ad un metodo per conoscere verità di qualunque tipo. Come filosofo e cittadino greco, a Socrate premeva la verità etica, davanti alla crisi morale del suo tempo in cui la sofistica minacciava i fondamenti stessi della democrazia ateniese, anche a livello teorico con la fondazione di fatto di una nuova etica (Protagora: se la verità non esiste, siamo legittimati a scegliere e difendere quella più utile per noi).
Il filosofo diversamente dai sofisti utilizzava la sua abilità di oratore (superiore ai sofisti stessi) non per utile personale, ma per cercare con gli altri di trovare la verità, dimostrando il più delle volte l'erroneità dei convincimenti altrui e convincendosi della propria ignoranza. È appunto stato notato che il limite dei dialoghi era di non essere propositivi, generatori di verità, ma di concludersi nel dubbio e nella consapevolezza della propria ignoranza. Ciò non nega la validità dello strumento dialogico che nel produrre il dubbio crea la consapevolezza della propria ignoranza e che esiste una verità da cercare: chi segue la maieutica ha appreso lo strumento (la maieutica) con cui trovare ogni altra verità e nel sapere di non sapere la verità iniziale su cui costruire. Diversamente dai sofisti, per Socrate, l'ignoranza e il relativismo morale non sono dati per sempre da un'impossibilità interna alla verità di esistere o conoscerla, ma sono una condizione temporanea da superare.
La definizione di felicità
Secondo il filosofo, con una delle definizione più complete di felicità mai date, "quella che sul piano soggettivo è la felicità, sul piano oggettivo coincide con la realizzazione della propria essenza"..., "felicità è fare quello per cui ciascuno di noi è stato programmato di fare". Il concetto è riassunto nella parola greca "aretè" da non tradursi con virtù, ma con essenza, nonostante la riflessione di Socrate è orientata all'etica come priorità del suo tempo: essa è appunto l'idea che ciascuno nasca per fare il filosofo, l'artista, etc. con un'aspirazione che è necessario realizzare. In questo modo la ricerca della verità e il metodo maieutico per raggiungerla restano attuali anche raggiunta una verità etica: anche quando sia stato eliminato il male, vi sarebbe ancora da trovare l'essenza di ciascuno per realizzarne la felicità (in maniera individuale, lasciando l'etica al piano collettivo come farà Epicuro, o sempre attraverso il dialogo, facendo di ogni soggetto un oggetto della ricerca della verità).
EMPEDOCLE
Empedocle, filosofo greco, ma anche scienziato, uomo politico, oratore, medico e taumaturgo, nacque ad Agrigento il 492 a.C. circa e morì probabilmente nel 430 a.C.. Era di famiglia nobile e ricca.
Se della sua vita non abbiamo molti dati certi, la sua fama di mago contribuì, invece, a far nascere molte leggende sul suo conto. I suoi amici e discepoli raccontano ad esempio che alla sua morte, essendo amato dagli dei, fu assunto in cielo; i suoi detrattori, al contrario, riferiscono che si sarebbe buttato nell'Etna, per dimostrare la sua divinità. In realtà non sappiamo neanche se sia morto in patria o, come sembra più probabile, nel Peloponneso. I Siciliani lo veneravano come profeta e gli attribuivano numerosi miracoli.
A Empedocle la tradizione attribuisce numerose opere, fra cui anche alcuni trattati – sulla medicina, sulla politica e sulle guerre persiane – e tragedie. A noi sono giunti però solo frammenti dei due poemi: Sulla natura e Purificazioni Della prima, di carattere cosmologico e naturalistico, sono rimasti circa 400 frammenti di diseguale ampiezza sugli originali 2000 versi, mentre della seconda, di carattere teologico e mistico, ne abbiamo poco meno di un centinaio rispetto agli originali 3000. La lingua da lui utilizzata è il dialetto ionico.
Il pensiero
La filosofia di Empedocle si presenta come un tentativo di combinazione sintetica delle precedenti dottrine ioniche, pitagoriche, eraclitee e parmenidee. Dalla filosofia ionica e da quella di Eraclito egli accoglie l'idea del divenire, del continuo e incessante mutamento delle cose. Da Parmenide, al contrario, accetta la tesi dell'immutabilità e dell'eternità dell'Essere. Empedocle – e come lui anche gli altri fisici pluralisti – risolve questa apparente contraddizione distinguendo la realtà che ci circonda, mutevole, dagli elementi primi, immutabili, che la compongono.
Empedocle chiama tali elementi "radici" e afferma che sono quattro: fuoco, aria, terra e acqua. L'unione di tali radici determina la nascita delle cose, la loro separazione la morte. Si tratta perciò di apparenti nascite e apparenti morti, dal momento che l'Essere (le radici) non si crea e non si distrugge, ma è soltanto in continua trasformazione.
Le quattro radici sono alla base della gnoseologia di Empedocle. La sua tesi fondamentale, esattamente opposta a quella di Anassagora, è che il simile conosce il simile. La conoscenza avviene tramite l'incontro fra l'elemento che è nell'uomo e lo stesso elemento al di fuori di lui. Ogni cosa e ogni corpo infatti emanano degli efflussi che arrivano fino agli esseri viventi e vengono percepiti soltanto se si adattano per dimensione ai pori degli organi di senso; in caso contrario passano inosservati.
Nelle Purificazioni Empedocle riprende la teoria orfica e pitagorica della metempsicosi, affermando l'esistenza di una legge di natura che fa scontare agli uomini i propri peccati attraverso una serie continua di nascite e di morti, tramite cui l'anima, di origine divina, trasmigra da un essere vivente all'altro (animale o vegetale) per millenni. Questa concezione conduce al rifiuto assoluto dei sacrifici, poiché in ogni essere vivente è un'anima umana, che sta compiendo il suo ciclo di reincarnazioni. Se nel corso di questo ciclo l'anima si è comportata bene, al termine potrà tornare nella sua condizione divina.
ANASSAGORA
Anassagora (Clazomene, 500/496 a.C. – Lampsaco, 428 a.C. circa) è stato un filosofo greco.
Per le sue opinioni riguardo il Sole, ritenendolo una massa incandescente invece che una divinità, viene accusato di empietà (asèbeia), accusa frequente contro i filosofi antichi ogni volta che il loro pensiero si distaccava dai dogmi religiosi. Per sfuggire la condanna si rifugia a Lampsaco, dove finirà i suoi giorni.
Diogene Laerzio riferisce che Anassagora ritenesse la Luna abitata: questo fa di lui il primo sostenitore documentato di teorie extraterrestri nella storia.
Il pensiero
Il pensiero di Anassagora presenta analogie con quello di Empedocle, secondo cui nulla nasce e nulla perisce, ma nascita e morte sono solo termini convenzionalmente utilizzati dagli essere umani per identificare mescolanza e disgregazione delle parti dell'Essere. A differenza di Empedocle Anassagora chiama queste parti semi. I semi sono caratterizzati dall'essere di numero infinito, identici tra loro ed infinitamente divisibili; in seguito a questa definizione Aristotele li chiamerà anche omeomerie. L'unione dei semi dà origine alla materia; essa si differenzia solo in base alle diverse quantità di semi presenti in essa.
Dai semi il filosofo distingue una forza che li fa muovere e li ordina, ed imprime loro l'energia necessaria alla trasformazione (o Divenire Continuo, simile al Ciclo Cosmico di Empedocle). Questa forza è un'intelligenza divina o Nous, che governa i semi e non appartiene alla materia. Anassagora lo definisce "sottile".
Anassagora dice che il Nous ha prodotto, nel caos primordiale dei semi, un movimento turbinoso che ha diviso le sostanze secondo l'opposizione del caldo e del freddo, della luce e dell'oscurità; appoggia quindi la teoria di Eraclito secondo la quale "il simile conosce il dissimile". Anche il concetto di piccolo e grande sono per lui relativi poiché afferma che ciascuna cosa è grande o piccola a seconda del termine con cui la si confronta.
Teoria della conoscenza
Riteneva che la conoscenza avvenisse per tre gradi: l'esperienza, la sofìa e la tecnica.
Dall'esperienza dei contrari (ad esempio quando riusciamo a sentire il forte, grazie all'esperienza del debole) arriviamo alla conoscenza dell'esperienza nella memoria e da qui possiamo costruire il nostro sapere .
La tecnica infine permette all'uomo il dominio sulle cose, ponendosi dunque sotto il nous.
ALTRI SOFISTI
Prodico, Ippia, Antifonte, Trasimaco e Crizia furono di poco posteriori ai due sofisti precedenti ed ognuno di essi si applicò a questioni diverse: Prodico studiò i sinonimi, mettendo in luce l'autonomia del linguaggio rispetto alla realtà che indicava e si dedicò al problema etico ed educativo; Ippia fu celebre per il suo sapere enciclopedico, oltre alle numerose conoscenze pratiche che testimoniano di una positiva considerazione di esso; Antifonte contribuì alle ricerche matematiche.
Il problema più discusso da tutti fu però quello politico-religioso, in particolare il problema della validità delle leggi, la cui diversità da una città all'altra mostrava ormai chiaramente che non avevano origine divina. Come opera umana esse potevano essere migliorate e si fece strada così l'idea di trovare una superiore legge di natura a cui l'uomo dovesse riconoscere una validità superiore a quella delle singole leggi positive. Nasce così il contrasto fra natura (fysis) e convenzione (nomos).
Alcuni sofisti concepirono questa legge di natura come legge di solidarietà fra gli uomini di diverse razze e nazioni, contro la disuguaglianza provocata dalle leggi particolari. Altri sofisti la concepirono invece come trionfo del più forte sul più debole. Il compito di superare questa antinomia fra natura e convenzione, che era alla base di una reazione sempre più individualistica e irrazionalistica al pensiero del V sec. a.C., spetterà al pensiero scientifico: la storiografia mise in luce che la società era il prodotto di profondi processi storici e non solo di una convenzione fra gli uomini, mentre la medicina aiutò a capire che la fysis non è qualcosa di monolitico, bensì di polimorfico.
CRIZIA
Crizia nacque ad Atene nel 460, da nobile famiglia. Dapprima discepolo di Gorgia, fu poi frequentatore di Socrate insieme a numerosi giovani dell'aristocrazia: Crizia, inoltre, intrattenne rapporti con Senofonte e Platone, nonché con Alcibiade, con il quale fu coinvolto, nel 415, nell'accusa di aver mutilato le erme. Proprio per il ritorno di Alcibiade dall'esilio Crizia fece approvare un decreto nell'estate del 411.
Il politico si ritirò, quindi, in Tessaglia, donde tornò ad Atene nella primavera del 404, guidando il governo filospartano dei Trenta Tiranni. Crizia vi si distinse come esponente della tendenza più radicale, mettendo a morte Teramene, capo dell'ala moderata, con un procedimento illegale.
Tuttavia, pochi mesi più tardi, gli uomini del democratico Trasibulo tornarono ad Atene, ingaggiando contro gli oligarchici uno scontro armato nel porto di Munichia, nel quale morì lo stesso Crizia.
Delle numerose opere che Crizia compose per dar voce alle sue teorie politiche e sociali restano appena 73 frammenti, probabilmente per la damnatio memoriae che seguì la sua morte da parte della restaurazione democratica ateniese. I titoli ci permettono di suddividerle in vari gruppi:
1. Opere poetiche
oltre a esametri, elegie, scrisse dei drammi di cui :
1. Tennes (2 frammenti)
2. Radamanto (12 versi)
3. Piritoo: è il dramma più ricostruibile, con i suoi 87 versi papiracei, in cui appare Piritoo, spregiatore degli dei e figlio di quell'Issione che tentò di violentare la stessa Era. In questa tragedia era rappresentata la discesa nell'Ade di Piritoo e Teseo per rapire Persefone.
4. Sisifo: il lungo frammento pervenutoci di questo dramma satiresco (34 versi) appartiene ad uno scabroso monologo di Sisifo, re di Corinto ed empio per antonomasia, che tracciava una ricostruzione della società umana secondo lo sviluppo delle leggi. L'abbandono della tradizionale divisione esiodea delle età per una concezione progressista, di stampo democriteo e protagoreo, giungeva all'estremo radicalismo con l'affermazione che il timore della divinità è uno strumento di repressione contro i crimini:
2. Costituzioni
Questi scritti in prosa non dovevano avere carattere di trattazioni sistematiche ma, come sembra potersi ricavare dalla Costituzione degli Spartani di Senofonte, che di Crizia fu seguace, esaminava gli aspetti sociali e civili del popolo in modo molto sintetico e negli ambiti essenziali, che rivelavano pregi e difetti del sistema in questione.
- Costituzione dei Tessali:
- Costituzione degli Spartani:
- Costituzione degli Ateniesi (?)
3. Opere varie
1. Aforismi:
2. Conversazioni
3. Proemi
CONCLUSIONI
Grande fu, in conclusione, il contributo dei sofisti al progresso del pensiero: essi hanno umanizzato la cultura accentuando l'indagine filosofica sull'uomo e comprendendo che egli è il fattore più importante della cultura e della civiltà. Importante è anche la loro opera critica nei confronti del dogmatismo, così come ebbe molto rilievo anche la tesi secondo cui la virtù si può insegnare: questa infatti sino ad ora era stata riservata a chi cresceva in una famiglia nobile, cosicché il plebeo non aveva alcuna possibilità di accedervi; ora, con la rivoluzione operata dai sofisti, la virtù si può insegnare e tutti possono apprenderla (novità che ebbe notevoli conseguenze anche come impulso allo sviluppo dell'educazione).
All'inizio del VI sec. a.C., quando le città ioniche erano in piena espansione economica e culturale, Atene si trovava ancora in una situazione di estrema arretratezza: non si poteva ancora parlare di polis e la terra era divisa fra famiglie aristocratiche indipendenti, accanto alle quali vivevano molti agricoltori proprietari dei campi che coltivavano direttamente.
In questa situazione i contadini cominciarono ad avanzare rivendicazioni presso le famiglie aristocratiche, chiedendo l'abolizione dei debiti e la soppressione della schiavitù.
Per risolvere questo conflitto furono affidati poteri eccezionali a Solone, il quale quindi assunse il ruolo di mediatore e legislatore.
Sul piano economico-sociale Solone cancellò i debiti e la schiavitù, ma non si spinse sino alla redistribuzione delle terre. Più importanti furono le riforme politiche, che cambiarono il tessuto sociale della città: innanzitutto fu eliminata la divisione dei cittadini in base all'appartenenza a famiglie aristocratiche, sostituendo una divisione basata sulla ricchezza; fu aumentato il peso del popolo negli organi di governo, attraverso forme di rappresentanza.
Da questo momento in avanti la via era tracciata, e grandi personalità aristocratiche come Pisistrato, Clistene e Pericle, amplieranno ulteriormente gli spazi per la partecipazione del popolo al governo della città.
Scheda cronologica: V secolo
490: battaglia di Maratona
480: battaglia di Salamina
477: Lega delio-attica guidata da Atene
472: rappresentazione dei "Persiani" di Aiskhulos a Atene
c.470: nascita di Sokrates
462: ingresso di Perikles nella vita politica ateniese: riforma demo- cratica della costituzione
c.460: primo agone comico a Atene nascita di Democrito "Discobolo" di Mirone
458: rappresentazione dell'"Orestiade" di Aiskhulos
457-451: prima guerra del Peloponneso
c.451: leggi delle "12 tavole" a Roma
446: pace trentennale tra Atene e Sparta
443-429: età di Perikles soggiorno di Herodotos a Atene primo sviluppo della sofistica con Protagora
seconda metà del V secolo: egemonia di Atene sulle città della Lega delio-attica produzione tragica di Sofokles e Euripides costruzione del Partenone, dei Propilei e dell'Eretteo sull' Acropoli di Atene Fidia e Policleto riforma del calendario da parte dell'astronomo Metone il filosofo Anassagora a Atene
431-421: seconda guerra del Peloponneso: inizio dell'egemonia spartana
c.430: attività del medico Ippocrate di Cos
427: il sofista Gorgia a Atene
427-388: il commediografo Aristofanes
Quadro culturale
In questo contesto nacque l'esigenza di riappropriarsi del patrimonio mitico tipico della tradizione greca, attraverso però una reinterpretazione di esso in funzione dei nuovi problemi connessi alla città. Questo fu il compito del teatro tragico,spettacolo al quale potevano partecipare gratuitamente tutti i cittadini e che divenne il centro religioso, politico e culturale della città. Accanto alla tragedia si diffuse anche la commedia, che trattava argomenti politici di maggiore immediatezza (quanto alla tragedia occorre ricordare che i maggiori autori furono Eschilo, Sofocle ed Euripide, mentre per la commedia il principale autore fu Aristofane).
Oltre al teatro la cultura greca conobbe un grande sviluppo della storiografia politica e a questo proposito occorre ricordare lo storico ionico Erodoto il quale con i suoi interessi etnologici, naturalistici ed economici, risponde alle esigenze di informazione di un popolo di mercanti e viaggiatori come erano gli abitanti delle colonie ioniche, e testimonia anche dell'influsso del pensiero dei filosofi ionici.
Diversa è invece l'impostazione che alla storia diedero gli storici ateniesi Tucidide e Senofonte, i quali operarono una rigorosa selezione del materiale utilizzato escludendo i riferimenti ai costumi religiosi e civili dei popoli, agli aspetti tecnico-economici, ai problemi geografico-scientifici, per concentrare tutta l'attenzione sui capi politici e militari della città di Atene.
Il pensiero dei sofisti
I sofisti erano dei maestri di virtù che si facevano pagare per i loro insegnamenti. Per tale motivo furono criticati aspramente dai loro contemporanei, soprattutto da Socrate e poi da Platone e Aristotele.
Coloro che maggiormente si affidano all'insegnamenti di questi filosofi sono i ceti aristocratici. I sofisti furono i primi ad elaborare il concetto occidentale di cultura (paideia) da Paride, non intesa come un insieme di conoscenze specializzate, ma come la formazione di un individuo nell'ambito di un popolo o di un contesto sociale. La retorica è l'argomento centrale del loro insegnamento;loro insegnano la morale, le leggi, i sistemi politici. Educano quindi i giovani a diventare cittadini attivi, cioè avvocati o militanti politici; ma per essere cittadini attivi, oltre ad avere buone conoscenze, bisogna anche essere convincenti, quindi la retorica è messa alla base della sofistica. I sofisti infatti,non si interrogano sulle questioni dei filosofi presocratici, trascurando la ricerca dell'arche originario ,ma soffermandosi sulla vita umana, diventando così i primi umanisti.
Due tesi convivono, l'una accanto all'altra, sui sofisti: quella che li vuole assertori del soggettivismo, del relativismo e dell'individualismo (contro l'oggettivismo e il naturalismo della filosofia precedente), e quella che li considera i fondatori della pedagogia e dell'umanesimo antichi.
Grandi sofisti: Protagora, Gorgia, Prodico e Ippia
Sofisti naturali: quelli che si interessano del rapporto natura-uomo
Sofisti politici: Crizia, Callicle
Eristi: portano all’esasperazione il metodo: Antifonte, Crizia, Menone
L'insegnamento
Con la comparsa dei sofisti nascono i luoghi deputati all'insegnamento: le case dei cittadini più ricchi, le piazze, le palestre pubbliche queste comprendevano dei portici in cui i filosofi potevano passeggiare con i loro discepoli, e sedere in banchi dove potevano discutere con i loro allievi. La scelta del luogo in cui insegnare era molto spesso legata al tipo di "sapienza" professata: Socrate scelse la strada e la piazza pubblica per mostrare la sua disponiblità verso tutti i cittadini e il disinteresse per il pagamento. Lo stesso faranno i cinici, durante le epoche successive. Diversamente gli accademici, i peripatetici, e gli stoici, si trovarono sempre meglio rappresentati in luoghi attrezzati con strumenti scientifici e biblioteche, oppure a servizio di qualche potente. Tuttavia la sofistica non è una scuola filosofica in senso proprio, per lo più si tratta di un movimento.
Caratteristico dei sofisti è il distacco dal pensiero eleatico (Parmenide, Zenone) e il loro avvicinamento alle "cose umane". Essi amano di più discutere sui poeti che sugli argomenti della filosofia precedente, tanto che tra le osservazioni principali che vengono fatte su di loro c'è quella secondo cui avrebbero spostato l'obiettivo della ricerca dalla natura all'uomo. La loro problematica è legata ad argomenti concreti e attuali della città in cui operano, e anche per questo devono aver sentito come lontane le dispute astratte dei filosofi eleatici. La cultura che essi divulgano non è più riservata a pochi eletti, ma a tutti coloro che ne vogliono fruire (salvo sempre un minimo di possibilità economiche per pagare le loro lezioni).
PROTAGORA
Protagora 481 a.C. - 420 a.C., filosofo presocratico nato ad Abdera nell'antica Grecia e annoverato da Socrate tra i sofisti, fu un famoso maestro nell'arte del dialogo e della discussione. Fu concittadino di Democrito ma non scolaro (Protagora era più anziano di vent'anni di Democrito). Venne esiliato per le sue affermazioni agnostiche ritenute "scandalose" ai suoi tempi.
Affascinato dallo studio del corretto uso delle parole, Protagora ha coniato un'espressione che, nonostante la fama di cui gode, non può essere interpretata con certezza, dal momento che è stata estrapolata dal contesto originale di riferimento:
"L'uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono" - solitamente ritenuta una professione di relativismo, a seconda del significato di uomo e di cose abbiamo dei diversi significati del termine:
1. uomo come "singolo individuo" e cose come "oggetti" è relativismo conoscitivo;
2. cose come "morale" si tratta di relativismo morale;
3. uomo come "comunità" è relativismo culturale;
4. uomo come "genere umano" è fenomenismo.
Il suo insegnamento spinse per opposizione i filosofi posteriori, come Platone, a ricercare e individuare riferimenti oggettivi e trascendenti su cui fondare il comportamento etico e la condotta morale. Il tema della soggettività è tornato di attualità con l'avvento della filosofia moderna. Fra i moderni eredi del pensiero di Protagora figurano soprattutto Montaigne, autentico erede del suo relativismo ed Emerson, il maggiore erede del suo antropocentrismo pragmatico.
Protagora fu anche un sostenitore dell'agnosticismo:
"A proposito degli dei, non ho mezzi per sapere se esistono o meno o come essi siano a causa dell'oscurità del soggetto e della brevità della vita umana".
Sviluppò l'uso delle antilogie, ovvero scritti in cui si cerca di dimostrare due tesi contrapposte ("la malattia è un male per il malato, ma un bene per il medico"). Con ciò voleva mettere in discussione l'esistenza di una verità assoluta. Tutto ciò si collegava a "rendere forte il discorso debole" cioè che con l'uso della dialettica e della retorica si può dimostrare tutto.
Sosteneva inoltre che la giustizia non è divina e si riduce all'utile ("Il giusto è l'utile della città"), ed era compito di tutti i cittadini stabilire le leggi in base all'utilità pubblica e privata. Inoltre "la virtù politica è distribuita equamente fra tutti gli uomini".
Abbiamo detto che Protagora si considerava maestro di virtù, infatti egli insegnava tutto ciò di cui una persona aveva bisogno per condurre gli affari della casa e per diventare un abile politico. Protagora è esponente di una nuova mentalità, testimoniata nell'opera "Sugli dèi" (libro che fu bruciato in pubblico, costringendo il sofista alla fuga in cui poi trovò la morte), dove egli, più che criticare la divinità, sostiene l'indifferenza come unico atteggiamento possibile, in quanto "sugli dèi non è possibile sapere nulla di certo".
Un'altra importante testimonianza proviene da un frammento di "La verità o discorsi demolitori", in cui egli afferma che "l'uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono e di quelle che non sono", esprimendo così in modo lapidario quel soggettivismo e quel relativismo che faranno a lungo discutere (per alcuni studiosi moderni "uomo" sta ad indicare tutta l'umanità, per cui non si potrebbe parlare di soggettivismo, ma per gli antichi indicava il singolo individuo, da cui tutte le critiche che gli furono mosse).
Altre informazioni ci provengono dalle parole che Platone fa pronunciare a Protagora nella sua difesa dalle accuse di Socrate, e dalle quali emerge chiaramente che con quel "di quelle che sono e di quelle che non sono" il sofista intende lasciarsi alle spalle la problematica sull'Essere, in quanto ora importa solo all'uomo di valutare le cose, perché è lui a doverne fare uso. Ciò che conta è, in particolare, l'arte del saper ben parlare ed esporre le proprie opinioni, in modo da convincere l'ascoltatore.
GORGIA
Gorgia di Leontini, in Sicilia, fu discepolo di Empedocle; sappiamo che nel 427 a.C. era ad Atene per una missione diplomatica e si suppone che sia vissuto fra il 484/3 e il 376/5 a.C. (107 anni!). Di lui rimane qualche brano dell'opera "Sulla natura e del non-essere" e il titolo di qualche celebre orazione (Elegia degli dèi, Orazione funebre); sappiamo anche che viaggiò moltissimo e che divenne quindi molto ricco grazie ai proventi della sua attività di sofista.
Per Gorgia la retorica è arte produttrice di persuasione, dove il logos viene assimilato per il suo potere al destino. Il frammento più importante è quello che rimane dell'opera "Non-essere", dove Gorgia fa una triplice affermazione:
- l'essere non è;
- se anche fosse non sarebbe conoscibile;
- se fosse conoscibile non sarebbe esprimibile.
Questa sua idea viene oramai interpretata nel senso di un radicale nichilismo ed una critica al pensiero di Parmenide, di cui viene messa in luce l'equivocità a proposito del termine "essere", usato ora nel senso di "esistere", ora invece nel senso puramente copulativo. Va rilevato inoltre lo spostamento del problema dall'essere in quanto tale alla sua conoscibilità ed alla conseguente possibilità di esprimerlo.
DEMOCRITO
Democrito, filosofo presocratico, nacque ad Abdera nella regione della Tracia intorno al 460 a.C. e morì assai vecchio, apparentemente centenario intorno al 360 a.C.. Allievo di Leucippo, fu co-fondatore dell'atomismo. È praticamente impossibile distinguere le idee attribuibili a Democrito da quelle del suo maestro.
Vita e opere
Poco sappiamo della sua vita, che si perde nell'aneddoto e talora nella leggenda. Cresciuto tra gli agi e le ricchezze, pare abbia rinunciato, in seguito, ad una parte dei suoi averi per dedicarsi esclusivamente agli studi e ai viaggi, ma anche che abbia perso la vista. Si tramanda che si sia spinto sia in Egitto, che in Etiopia che nell'India. Egli stesso dice: "Io sono, tra i miei contemporanei, quello che ha precorso la maggior parte della Terra, facendo ricerca delle cose più strane; e vidi cieli e terre numerosissime; e udii la maggior parte degli uomini dotti". Fu anche, ovviamente ad Atene. Qui, sebbene non abbia trovato considerazione, ebbe modo di vivere a contatto con la cultura sofistico-socratica, che lasciò tracce visibili sul suo sistema di natura enciclopedica. Egli scrisse "La piccola cosmologia", "Sulla natura", "Sulle forme degli atomi", "Sulle parole".
La teoria atomistica
La teoria atomistica prende forma da un immediato ragionamento: se la materia si dividesse all'infinito essa non sarebbe più. Deve esistere una particella indivisibile, dunque, che stia alla base della materia (a-temno). Questa teoria è in contrapposizione con quella di Parmenide e Zenone di Elea. Gli atomi si differenziano fra loro per la forma e la grandezza, si muovono nel vuoto ma sono di materia piena. Egli sostiene inoltre che se noi percepiamo la realtà in modo differente, questa diversità tra le cose è data dai flussi di atomi che si muovono vorticosamente nell'atmosfera e "colpiscono" i nostri organi sensoriali.
Se la filosofia di Parmenide negava il mondo molteplice come vera illusione, quella di Democrito per ammettere tale realtà doveva postulare l'esistenza di due principi: gli atomi (che costituiscono "l'essere" nel senso di Parmenide) e il vuoto in cui si muovono (il "non essere"). La contraddittorietà di due archè sarà risolta da Platone. Rimane però nella storia della filosofia il paradosso delle due totalità che verrà esaminato da Hegel.
Nella sua lunga esistenza Democrito scrisse anche opere di etica, in cui affermava che l'interesse maggiore dell'uomo deve essere la felicità, che si ricerca attraverso una moderata cancellazione della paura: per questo egli divenne noto come il "filosofo del riso", a differenza del triste e pessimista Eraclito che venne definito il "filosofo del pianto".
Il divino
Così come per il resto della materia, anche l'anima (psychè) per Democrito era costituita da atomi, atomi più sottili e lisci, di natura ignea. Essi penetrano tutto il corpo e gli danno vita e vengono mantenuti in esso grazie alla respirazione, inoltre grazie a questa capacità di vivificare, di render pensante l'uomo, erano considerati divini. Infine Democrito,sostiene che gli Dei sono fatti di atomi proprio come gli esseri umani, ma che non interagiscono affatto con noi: questo fatto lo fece considerare come un vero e proprio anticonformista e ateo, una vera rarità ai suoi tempi
Conoscenza
Per Democrito, gli atomi al di fuori di noi, tramite i sensi, venivano a contatto con quelli simili che erano presenti nel nostro corpo, generando cosi la conoscenza. Divideva la conoscenza in: sensazione e conoscenza intellettiva; la prima puramente soggettiva e oscura, la seconda vista come conoscenza genuina.
La morale
La moralità per Democrito consiste essenzialmente nella felicità come fine della vita .Ma una felicità non nel possedere beni materiali,ma nell' esser saggi e nel condurre una vita giusta.Bisogna esser coraggiosi non in guerra, ma contro i piaceri sensibili che rendono schiavi del piacere l' uomo. Dà risalto anche alla volontà dell' uomo di voler bene, non solo nel non farlo, esortando di aver paura dell' odio, dell' invidia liberandosi così da ogni vizio. Questo saper vivere nel giusto mezzo implica il saper equilibrare i piaceri e i doveri della vita, cosa che un filosofo è tenuto a sapere.
SOCRATE
(470 a.C. – 399 a.C.) è stato un filosofo greco. È uno dei più importanti esponenti della tradizione filosofica occidentale.
Il contributo più importante al pensiero occidentale è il suo metodo d'indagine, conosciuto come elenchos, che applicò prevalentemente all'esame critico di concetti morali fondamentali. Per questo Socrate è riconosciuto come padre fondatore dell'etica o filosofia morale e della filosofia in generale.
È ben noto il fatto che Socrate non ha lasciato alcuno scritto. Il suo pensiero lo ricaviamo dalle opere dei discepoli, tra cui spicca soprattutto Platone e, di seguito, Senofonte. Un'altra testimonianza la troviamo ne Le nuvole, commedia di Aristofane. La mancanza di scritti di parte di Socrate pone notevoli problemi alla possibilità di ricostruire il suo pensiero originale, in particolar modo risulta arduo distinguerlo da quello di Platone.
Il pensiero socratico
Il metodo socratico dell'elenchos consiste in domande e risposte riguardo le definizioni o logoi (singolare logos), cercando di determinare le caratteristiche generali condivise da varie istanze particolari. Visto che questo metodo è mirato a estrarre le definizioni implicite nelle idee e convinzioni dell'interlocutore, o ad aiutarlo a migliorarne la sua comprensione, fu chiamato metodo della maieutica.
Tale esame sfidò le assunzioni implicite nelle convinzioni morali degli interlocutori, portandone alla luce le contraddizioni e le inadeguatezze, e normalmente generando in loro lo stupore e smarrimento conosciuto come aporia. Riguardo a tali inadeguatezze, Socrate sempre professò la propria ignoranza, mentre altri continuarono a sostenere di essere sapienti. Socrate rispose che, essendo conscio della propria ignoranza, egli era più saggio di coloro che, essendo ignoranti, continuavano a professare la propria sapienza (teoria della dotta ignoranza). La consapevolezza del sapere di non sapere è una coscienza e una verità evidente e innegabile, che dimostra intanto che la verità e la coscienza esistono e sono possibili (essendovene una). Socrate pose il sapere di non sapere a fondamento di qualunque altra verità e conoscenza. Questa paradossale affermazione fu trasmessa nell'aneddoto dell'oracolo di Delfi che dichiarò che Socrate fosse il piú sapiente di tutti gli uomini.
Socrate utilizzò questa dichiarazione come base per le proprie esortazioni morali. Socrate sosteneva che la principale virtù fosse la cura della propria anima tramite verità e conoscenza, che ricchezza non porta virtù, ma virtù porta ricchezza e ogni altra benedizione, sia all'individuo che allo stato e che una vita senza esame non valesse la pena di essere vissuta. Socrate pure sostenne che subire un'ingiustizia è meglio che commetterla.
Il tema della dotta ignoranza
Tutto il pensiero socratico nasce dal tema dell'ignoranza. La figura del filosofo secondo Socrate è completamente opposta a quella del saccente. L'origine della filosofia socratica si può far risalire ad una frase pronunciata dalla Pizia (sacerdotessa dell'oracolo di Delfi): "Socrate è l'uomo più saggio tra tutti". È proprio questa frase che pone Socrate nella situazione di porgersi e porgere agli altri (quelli che pensano di sapere le verità) continue domande sul come e sul perché di tutto (si potrebbe a questo punto paragonare Socrate ad un bambino). E si rese conto che era stato definito il più saggio perché "sapeva di non sapere".
L'intellettualismo etico
Socrate sosteneva che la causa del male è soltanto l'ignoranza: chi commette il male, se sapesse non lo farebbe. Questo collega l'etica al problema della ricerca della verità: una scienza del bene e del male per eliminare il male ed avere un comportamento perfettamente etico, richiedono prima di dimostrare che esiste la verità, ossia che non si perde tempo a ricercare qualcosa che non esiste, e possibilmente di definire un metodo per trovare qualunque verità, anche non etica. Perciò, non riconosce nel comportamento acivico dei sofisti e di quanti lo condannarono a morte una colpa, ma un'ignoranza di fondo (della propria ignoranza, dell'esistenza) che davanti alle loro coscienze li legittimava ad agire per l'utile, anche uccidendo un uomo.
Socrate era abile oratore e uomo colto, amante dell'arte e delle scienze come il discepolo Platone, e con la maieutica aspirava ad un metodo per conoscere verità di qualunque tipo. Come filosofo e cittadino greco, a Socrate premeva la verità etica, davanti alla crisi morale del suo tempo in cui la sofistica minacciava i fondamenti stessi della democrazia ateniese, anche a livello teorico con la fondazione di fatto di una nuova etica (Protagora: se la verità non esiste, siamo legittimati a scegliere e difendere quella più utile per noi).
Il filosofo diversamente dai sofisti utilizzava la sua abilità di oratore (superiore ai sofisti stessi) non per utile personale, ma per cercare con gli altri di trovare la verità, dimostrando il più delle volte l'erroneità dei convincimenti altrui e convincendosi della propria ignoranza. È appunto stato notato che il limite dei dialoghi era di non essere propositivi, generatori di verità, ma di concludersi nel dubbio e nella consapevolezza della propria ignoranza. Ciò non nega la validità dello strumento dialogico che nel produrre il dubbio crea la consapevolezza della propria ignoranza e che esiste una verità da cercare: chi segue la maieutica ha appreso lo strumento (la maieutica) con cui trovare ogni altra verità e nel sapere di non sapere la verità iniziale su cui costruire. Diversamente dai sofisti, per Socrate, l'ignoranza e il relativismo morale non sono dati per sempre da un'impossibilità interna alla verità di esistere o conoscerla, ma sono una condizione temporanea da superare.
La definizione di felicità
Secondo il filosofo, con una delle definizione più complete di felicità mai date, "quella che sul piano soggettivo è la felicità, sul piano oggettivo coincide con la realizzazione della propria essenza"..., "felicità è fare quello per cui ciascuno di noi è stato programmato di fare". Il concetto è riassunto nella parola greca "aretè" da non tradursi con virtù, ma con essenza, nonostante la riflessione di Socrate è orientata all'etica come priorità del suo tempo: essa è appunto l'idea che ciascuno nasca per fare il filosofo, l'artista, etc. con un'aspirazione che è necessario realizzare. In questo modo la ricerca della verità e il metodo maieutico per raggiungerla restano attuali anche raggiunta una verità etica: anche quando sia stato eliminato il male, vi sarebbe ancora da trovare l'essenza di ciascuno per realizzarne la felicità (in maniera individuale, lasciando l'etica al piano collettivo come farà Epicuro, o sempre attraverso il dialogo, facendo di ogni soggetto un oggetto della ricerca della verità).
EMPEDOCLE
Empedocle, filosofo greco, ma anche scienziato, uomo politico, oratore, medico e taumaturgo, nacque ad Agrigento il 492 a.C. circa e morì probabilmente nel 430 a.C.. Era di famiglia nobile e ricca.
Se della sua vita non abbiamo molti dati certi, la sua fama di mago contribuì, invece, a far nascere molte leggende sul suo conto. I suoi amici e discepoli raccontano ad esempio che alla sua morte, essendo amato dagli dei, fu assunto in cielo; i suoi detrattori, al contrario, riferiscono che si sarebbe buttato nell'Etna, per dimostrare la sua divinità. In realtà non sappiamo neanche se sia morto in patria o, come sembra più probabile, nel Peloponneso. I Siciliani lo veneravano come profeta e gli attribuivano numerosi miracoli.
A Empedocle la tradizione attribuisce numerose opere, fra cui anche alcuni trattati – sulla medicina, sulla politica e sulle guerre persiane – e tragedie. A noi sono giunti però solo frammenti dei due poemi: Sulla natura e Purificazioni Della prima, di carattere cosmologico e naturalistico, sono rimasti circa 400 frammenti di diseguale ampiezza sugli originali 2000 versi, mentre della seconda, di carattere teologico e mistico, ne abbiamo poco meno di un centinaio rispetto agli originali 3000. La lingua da lui utilizzata è il dialetto ionico.
Il pensiero
La filosofia di Empedocle si presenta come un tentativo di combinazione sintetica delle precedenti dottrine ioniche, pitagoriche, eraclitee e parmenidee. Dalla filosofia ionica e da quella di Eraclito egli accoglie l'idea del divenire, del continuo e incessante mutamento delle cose. Da Parmenide, al contrario, accetta la tesi dell'immutabilità e dell'eternità dell'Essere. Empedocle – e come lui anche gli altri fisici pluralisti – risolve questa apparente contraddizione distinguendo la realtà che ci circonda, mutevole, dagli elementi primi, immutabili, che la compongono.
Empedocle chiama tali elementi "radici" e afferma che sono quattro: fuoco, aria, terra e acqua. L'unione di tali radici determina la nascita delle cose, la loro separazione la morte. Si tratta perciò di apparenti nascite e apparenti morti, dal momento che l'Essere (le radici) non si crea e non si distrugge, ma è soltanto in continua trasformazione.
Le quattro radici sono alla base della gnoseologia di Empedocle. La sua tesi fondamentale, esattamente opposta a quella di Anassagora, è che il simile conosce il simile. La conoscenza avviene tramite l'incontro fra l'elemento che è nell'uomo e lo stesso elemento al di fuori di lui. Ogni cosa e ogni corpo infatti emanano degli efflussi che arrivano fino agli esseri viventi e vengono percepiti soltanto se si adattano per dimensione ai pori degli organi di senso; in caso contrario passano inosservati.
Nelle Purificazioni Empedocle riprende la teoria orfica e pitagorica della metempsicosi, affermando l'esistenza di una legge di natura che fa scontare agli uomini i propri peccati attraverso una serie continua di nascite e di morti, tramite cui l'anima, di origine divina, trasmigra da un essere vivente all'altro (animale o vegetale) per millenni. Questa concezione conduce al rifiuto assoluto dei sacrifici, poiché in ogni essere vivente è un'anima umana, che sta compiendo il suo ciclo di reincarnazioni. Se nel corso di questo ciclo l'anima si è comportata bene, al termine potrà tornare nella sua condizione divina.
ANASSAGORA
Anassagora (Clazomene, 500/496 a.C. – Lampsaco, 428 a.C. circa) è stato un filosofo greco.
Per le sue opinioni riguardo il Sole, ritenendolo una massa incandescente invece che una divinità, viene accusato di empietà (asèbeia), accusa frequente contro i filosofi antichi ogni volta che il loro pensiero si distaccava dai dogmi religiosi. Per sfuggire la condanna si rifugia a Lampsaco, dove finirà i suoi giorni.
Diogene Laerzio riferisce che Anassagora ritenesse la Luna abitata: questo fa di lui il primo sostenitore documentato di teorie extraterrestri nella storia.
Il pensiero
Il pensiero di Anassagora presenta analogie con quello di Empedocle, secondo cui nulla nasce e nulla perisce, ma nascita e morte sono solo termini convenzionalmente utilizzati dagli essere umani per identificare mescolanza e disgregazione delle parti dell'Essere. A differenza di Empedocle Anassagora chiama queste parti semi. I semi sono caratterizzati dall'essere di numero infinito, identici tra loro ed infinitamente divisibili; in seguito a questa definizione Aristotele li chiamerà anche omeomerie. L'unione dei semi dà origine alla materia; essa si differenzia solo in base alle diverse quantità di semi presenti in essa.
Dai semi il filosofo distingue una forza che li fa muovere e li ordina, ed imprime loro l'energia necessaria alla trasformazione (o Divenire Continuo, simile al Ciclo Cosmico di Empedocle). Questa forza è un'intelligenza divina o Nous, che governa i semi e non appartiene alla materia. Anassagora lo definisce "sottile".
Anassagora dice che il Nous ha prodotto, nel caos primordiale dei semi, un movimento turbinoso che ha diviso le sostanze secondo l'opposizione del caldo e del freddo, della luce e dell'oscurità; appoggia quindi la teoria di Eraclito secondo la quale "il simile conosce il dissimile". Anche il concetto di piccolo e grande sono per lui relativi poiché afferma che ciascuna cosa è grande o piccola a seconda del termine con cui la si confronta.
Teoria della conoscenza
Riteneva che la conoscenza avvenisse per tre gradi: l'esperienza, la sofìa e la tecnica.
Dall'esperienza dei contrari (ad esempio quando riusciamo a sentire il forte, grazie all'esperienza del debole) arriviamo alla conoscenza dell'esperienza nella memoria e da qui possiamo costruire il nostro sapere .
La tecnica infine permette all'uomo il dominio sulle cose, ponendosi dunque sotto il nous.
ALTRI SOFISTI
Prodico, Ippia, Antifonte, Trasimaco e Crizia furono di poco posteriori ai due sofisti precedenti ed ognuno di essi si applicò a questioni diverse: Prodico studiò i sinonimi, mettendo in luce l'autonomia del linguaggio rispetto alla realtà che indicava e si dedicò al problema etico ed educativo; Ippia fu celebre per il suo sapere enciclopedico, oltre alle numerose conoscenze pratiche che testimoniano di una positiva considerazione di esso; Antifonte contribuì alle ricerche matematiche.
Il problema più discusso da tutti fu però quello politico-religioso, in particolare il problema della validità delle leggi, la cui diversità da una città all'altra mostrava ormai chiaramente che non avevano origine divina. Come opera umana esse potevano essere migliorate e si fece strada così l'idea di trovare una superiore legge di natura a cui l'uomo dovesse riconoscere una validità superiore a quella delle singole leggi positive. Nasce così il contrasto fra natura (fysis) e convenzione (nomos).
Alcuni sofisti concepirono questa legge di natura come legge di solidarietà fra gli uomini di diverse razze e nazioni, contro la disuguaglianza provocata dalle leggi particolari. Altri sofisti la concepirono invece come trionfo del più forte sul più debole. Il compito di superare questa antinomia fra natura e convenzione, che era alla base di una reazione sempre più individualistica e irrazionalistica al pensiero del V sec. a.C., spetterà al pensiero scientifico: la storiografia mise in luce che la società era il prodotto di profondi processi storici e non solo di una convenzione fra gli uomini, mentre la medicina aiutò a capire che la fysis non è qualcosa di monolitico, bensì di polimorfico.
CRIZIA
Crizia nacque ad Atene nel 460, da nobile famiglia. Dapprima discepolo di Gorgia, fu poi frequentatore di Socrate insieme a numerosi giovani dell'aristocrazia: Crizia, inoltre, intrattenne rapporti con Senofonte e Platone, nonché con Alcibiade, con il quale fu coinvolto, nel 415, nell'accusa di aver mutilato le erme. Proprio per il ritorno di Alcibiade dall'esilio Crizia fece approvare un decreto nell'estate del 411.
Il politico si ritirò, quindi, in Tessaglia, donde tornò ad Atene nella primavera del 404, guidando il governo filospartano dei Trenta Tiranni. Crizia vi si distinse come esponente della tendenza più radicale, mettendo a morte Teramene, capo dell'ala moderata, con un procedimento illegale.
Tuttavia, pochi mesi più tardi, gli uomini del democratico Trasibulo tornarono ad Atene, ingaggiando contro gli oligarchici uno scontro armato nel porto di Munichia, nel quale morì lo stesso Crizia.
Delle numerose opere che Crizia compose per dar voce alle sue teorie politiche e sociali restano appena 73 frammenti, probabilmente per la damnatio memoriae che seguì la sua morte da parte della restaurazione democratica ateniese. I titoli ci permettono di suddividerle in vari gruppi:
1. Opere poetiche
oltre a esametri, elegie, scrisse dei drammi di cui :
1. Tennes (2 frammenti)
2. Radamanto (12 versi)
3. Piritoo: è il dramma più ricostruibile, con i suoi 87 versi papiracei, in cui appare Piritoo, spregiatore degli dei e figlio di quell'Issione che tentò di violentare la stessa Era. In questa tragedia era rappresentata la discesa nell'Ade di Piritoo e Teseo per rapire Persefone.
4. Sisifo: il lungo frammento pervenutoci di questo dramma satiresco (34 versi) appartiene ad uno scabroso monologo di Sisifo, re di Corinto ed empio per antonomasia, che tracciava una ricostruzione della società umana secondo lo sviluppo delle leggi. L'abbandono della tradizionale divisione esiodea delle età per una concezione progressista, di stampo democriteo e protagoreo, giungeva all'estremo radicalismo con l'affermazione che il timore della divinità è uno strumento di repressione contro i crimini:
2. Costituzioni
Questi scritti in prosa non dovevano avere carattere di trattazioni sistematiche ma, come sembra potersi ricavare dalla Costituzione degli Spartani di Senofonte, che di Crizia fu seguace, esaminava gli aspetti sociali e civili del popolo in modo molto sintetico e negli ambiti essenziali, che rivelavano pregi e difetti del sistema in questione.
- Costituzione dei Tessali:
- Costituzione degli Spartani:
- Costituzione degli Ateniesi (?)
3. Opere varie
1. Aforismi:
2. Conversazioni
3. Proemi
CONCLUSIONI
Grande fu, in conclusione, il contributo dei sofisti al progresso del pensiero: essi hanno umanizzato la cultura accentuando l'indagine filosofica sull'uomo e comprendendo che egli è il fattore più importante della cultura e della civiltà. Importante è anche la loro opera critica nei confronti del dogmatismo, così come ebbe molto rilievo anche la tesi secondo cui la virtù si può insegnare: questa infatti sino ad ora era stata riservata a chi cresceva in una famiglia nobile, cosicché il plebeo non aveva alcuna possibilità di accedervi; ora, con la rivoluzione operata dai sofisti, la virtù si può insegnare e tutti possono apprenderla (novità che ebbe notevoli conseguenze anche come impulso allo sviluppo dell'educazione).
IL LOGOS
"Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell'anima: così profondo è il suo lógos".
(Eraclito, fr. 45 )
Il LOGOS per Eraclito è la ragione che governa tutte le cose.
Logos è l’ispirazione che si infonde nella mente, è l’elaborazione di questa ispirazione in pensiero consapevole, in ragione, dunque. Ed infine Logos è l’espressione di questa ragione.
Il Logos di Eraclito mi ricorda ciò che per il cristiani è lo Spirito Santo, o meglio ancora quello che nella Bibbia viene definito Verbo. Ma ancora di più il Logos mi ricorda la definizione Tao che ho letto su un libricino di detti Zen. Il tao è una forza che scorre attraverso tutto l’universo e che anima tutte le cose. Il tao è la via. Il tao “è”.
Il Logos di Eraclito è ciò che per i religiosi è Dio.
Nel frammento 45, Eraclito riflette sul logos dell’anima e dice di aver scoperto che l'anima non ha dimensioni, non è definita. Dice che il Logos dell’anima è profondo. Sembra quasi che voglia rendere l'idea dello scavare in profondità alla ricerca dell'anima. L’anima dunque non ha inizio e non ha fine.
Eraclito intende che il logos che dà vita all’anima non ha fine, però non specifica se l’anima non ha fine fintanto che il corpo che la ospita vive.
Forse Eraclito si riferiva ad un’anima universale, non all’anima individuale, l’anima di ognuno di noi.
Forse l’anima universale è infinita mentre l’anima individuale finisce con la nostra morte.
riflessione svolta come compito a casa
(Eraclito, fr. 45 )
Il LOGOS per Eraclito è la ragione che governa tutte le cose.
Logos è l’ispirazione che si infonde nella mente, è l’elaborazione di questa ispirazione in pensiero consapevole, in ragione, dunque. Ed infine Logos è l’espressione di questa ragione.
Il Logos di Eraclito mi ricorda ciò che per il cristiani è lo Spirito Santo, o meglio ancora quello che nella Bibbia viene definito Verbo. Ma ancora di più il Logos mi ricorda la definizione Tao che ho letto su un libricino di detti Zen. Il tao è una forza che scorre attraverso tutto l’universo e che anima tutte le cose. Il tao è la via. Il tao “è”.
Il Logos di Eraclito è ciò che per i religiosi è Dio.
Nel frammento 45, Eraclito riflette sul logos dell’anima e dice di aver scoperto che l'anima non ha dimensioni, non è definita. Dice che il Logos dell’anima è profondo. Sembra quasi che voglia rendere l'idea dello scavare in profondità alla ricerca dell'anima. L’anima dunque non ha inizio e non ha fine.
Eraclito intende che il logos che dà vita all’anima non ha fine, però non specifica se l’anima non ha fine fintanto che il corpo che la ospita vive.
Forse Eraclito si riferiva ad un’anima universale, non all’anima individuale, l’anima di ognuno di noi.
Forse l’anima universale è infinita mentre l’anima individuale finisce con la nostra morte.
riflessione svolta come compito a casa
DISPUTA TRA PLATONE E ARISTOTELE
Qual’è la tua posizione nella disputa sull’arte tra Platone ed Aristotele
Quando studiammo Platone, osservammo come questo filosofo considerasse l’arte come una funzione cognitiva negativa. Secondo Platone, infatti, la visione delle cose attraverso l’arte, risulta falsa, distante dalla realtà. Anche dal punto di vista morale, l’arte per Platone è negativa in quanto imita le passioni, trascina l’osservatore ad immedesimarsi nelle emozioni che l’oggetto artistico riproduce. Nel caso di un’opera teatrale, per esempio, lo spettatore assorbe le emozioni violente che accadono sulla scena e viene incoraggiato a viverle personalmente.
Aristotele, tutto al contrario rispetto a Platone, considera l’arte una riproduzione, una rappresentazione del verosimile e, come tale, diventa una forma conoscitiva del fatto specifico. Inoltre dal punto di vista morale, considera l’arte una funzione positiva in quanto catartica, capace cioè di liberare da quelle passioni che offuscherebbero la vista della verità. Il nostro libro avvisa che gli studiosi sono in dubbio sull’interpretazione del concetto di “catarsi” per Aristotele: forse egli intendeva esprimere un concetto di sublimazione delle passioni, ovvero della loro purificazione; oppure intendeva lo sdrammatizzare queste passioni.
Ad ogni modo, per Aristotele l’arte non è più un’illusione come poteva esserlo per Platone: il mondo sensibile che l’arte imita, non è semplice apparenza, ma una realtà che può essere oggetto di sapere.
Non posso condividere il concetto platonico di Arte, in quanto io amo l’arte.
Sono d’accordo con Aristotele relativamente alla positività di questa virtù dianoetica.
Non solo l’arte è un modo di sublimare, arginare passioni o imparare qualcosa: secondo me l’arte soprattutto conduce alla FELICITA’.
Per Aristotele l’uomo è felice quando riesce a vivere realizzando in modo armonico le proprie facoltà, secondo le virtù etiche e dianoetiche.
Secondo me l’arte conduce alla felicità attraverso due strade: la produzione e l’osservazione.
Chi riesce a produrre un quadro, una scultura, un brano di musica, oppure una bella fotografia (questo è il caso che mi riguarda più da vicino), prova molta soddisfazione, molta gioia. Creare dà una grande felicità.
Allo stesso modo l’osservare un’opera d’arte, scoprire di comprendere le intenzioni dell’artista, riuscire ad interpretare i sentimenti che si volevano esprimere con colori, sfumature, particolari, è altresì fonte di gioia, di felicità. Osservare (o ascoltare) qualcosa di bello, trasmette armonia.
Se poi si considera la natura come una forma d’arte, l’emozione che si prova nell’osservarla può essere molto intensa.
Quindi secondo me l’arte è positiva perchè, sia nel caso di una riproduzione del reale, sia nel caso del reale stesso, infonde armonia e genera felicità.
Quando studiammo Platone, osservammo come questo filosofo considerasse l’arte come una funzione cognitiva negativa. Secondo Platone, infatti, la visione delle cose attraverso l’arte, risulta falsa, distante dalla realtà. Anche dal punto di vista morale, l’arte per Platone è negativa in quanto imita le passioni, trascina l’osservatore ad immedesimarsi nelle emozioni che l’oggetto artistico riproduce. Nel caso di un’opera teatrale, per esempio, lo spettatore assorbe le emozioni violente che accadono sulla scena e viene incoraggiato a viverle personalmente.
Aristotele, tutto al contrario rispetto a Platone, considera l’arte una riproduzione, una rappresentazione del verosimile e, come tale, diventa una forma conoscitiva del fatto specifico. Inoltre dal punto di vista morale, considera l’arte una funzione positiva in quanto catartica, capace cioè di liberare da quelle passioni che offuscherebbero la vista della verità. Il nostro libro avvisa che gli studiosi sono in dubbio sull’interpretazione del concetto di “catarsi” per Aristotele: forse egli intendeva esprimere un concetto di sublimazione delle passioni, ovvero della loro purificazione; oppure intendeva lo sdrammatizzare queste passioni.
Ad ogni modo, per Aristotele l’arte non è più un’illusione come poteva esserlo per Platone: il mondo sensibile che l’arte imita, non è semplice apparenza, ma una realtà che può essere oggetto di sapere.
Non posso condividere il concetto platonico di Arte, in quanto io amo l’arte.
Sono d’accordo con Aristotele relativamente alla positività di questa virtù dianoetica.
Non solo l’arte è un modo di sublimare, arginare passioni o imparare qualcosa: secondo me l’arte soprattutto conduce alla FELICITA’.
Per Aristotele l’uomo è felice quando riesce a vivere realizzando in modo armonico le proprie facoltà, secondo le virtù etiche e dianoetiche.
Secondo me l’arte conduce alla felicità attraverso due strade: la produzione e l’osservazione.
Chi riesce a produrre un quadro, una scultura, un brano di musica, oppure una bella fotografia (questo è il caso che mi riguarda più da vicino), prova molta soddisfazione, molta gioia. Creare dà una grande felicità.
Allo stesso modo l’osservare un’opera d’arte, scoprire di comprendere le intenzioni dell’artista, riuscire ad interpretare i sentimenti che si volevano esprimere con colori, sfumature, particolari, è altresì fonte di gioia, di felicità. Osservare (o ascoltare) qualcosa di bello, trasmette armonia.
Se poi si considera la natura come una forma d’arte, l’emozione che si prova nell’osservarla può essere molto intensa.
Quindi secondo me l’arte è positiva perchè, sia nel caso di una riproduzione del reale, sia nel caso del reale stesso, infonde armonia e genera felicità.
riflessione svolta come compito a casa
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